martedì 31 gennaio 2012

sabato, 24 dicembre 2011


Riporto l'Introduzione dell'opuscolo "Sonni & Viaggi". Copia omaggio ai richiedenti (basta passare sotto casa. Viaggi fatti, libri mai scritti


Avete mai osservato un videopokerista incallito? Parla con la macchinetta, brontola mezze frasi piene di smorfie fatalistiche e risentite (ehhh…si no deppiri donai, no donara…bastarda…), mentre dal feticcio brillante escono musichette e scatti meccanici. È nel suo “sballo”, in pace; immerso nel suo “sonno”. Non molto diverso, in fondo, da quel preside che, durante un esame, viveva un felice rapporto di perpetuo borbottamento con le carte; vagamente competitivo, un amabile guerreggiare con il disordine, che pareva volesse dire, “ehhhh…siete molte e ancora molto bianche …ma io vi compilerò!”. Ognuno c’ha lo sballo suo, coltiva il suo sonno. Se lo trova, se lo cresce, se lo vizia, se lo accarezza. Affari suoi.
Ai primi di Agosto del 1995 mi aggiravo per Genova e siccome avevo tempo da buttare e una storia in testa, entrai alla Berio che allora stava in piazza Galileo Ferraris, in pieno centro. Il libro doveva intitolarsi, La pelle del Capitano. Finti fantasmi a Roma sotto il fascismo. Mai scritto. Resta solo molta cartoleria sparsa. Preparativi. È straordinario come la semplice azione di tirare un cassettino di uno schedario possa cambiarti la vita. Il romanzo raccontava di un ambiguo individuo, mago, machista, fascista, sciancato ad una gamba, sulfureo indefesso ciarlatano che da anni spillava denari ad una vecchia contessa appassionata di fantasmi. Nella vicenda era prevista una lunga digressione sul Bragadin (uno dei fantasmi) e l’assedio di Famagosta. Tirai il cassettino, scelsi un libro, andai in sala lettura. Ricordo massicci tavoli in legno, fresco, silenzio, pochissimi utenti, finestroni aperti, tende svolazzanti. Mai l’avessi fatto: amore a prima vista. Capita, con i libri. Il volumaccio, 800 pagine (1), era pieno zeppo di citazioni d’epoca. Di colpo, le cose di quei giorni lontanissimi ripresero a vivere. Fuoco, polvere, inganni, insonnie, sudore. Feci un centinaio di fotocopie e me ne tornai a Cagliari. Lentamente il romanzo evaporò e la storia vinse; era come se quei fatti chiedessero di tornare; nacque “Accadde a Famagosta”; altre estati, altre biblioteche, altri viaggi, altri tavoli deserti. Leggere e viaggiare: il mio personale sballo.
Non c’era un motivo preciso per essere a Genova, quell’estate. Tranne che per un brevissimo pomeriggio, in transito per Parigi, mille anni prima, non c’ero mai stato. Mi andava di andarci: ci andai. C’è qualcosa di erotico nel visitare città, specie se grandi, antiche, mai viste. Genova mi entusiasmò. Ricordo di avere scritto, da qualche parte, che mi piaceva quasi più di Venezia. Dovevo scrivere una cosa; ne scrissi un’altra. Amen.


C’è un altro libro che forse non riuscirò a scrivere. S’è preso sei mesi buoni di vita. Continue fluttuazioni. Volevo e disvolevo. Anche qui molta cartoleria, preparativi, fogli sparsi, repertori ragionati. Era una sorta di “disinvolta” psico-antropologia dell’Uomo Qualunque. Titolo provvisorio, Da che mondo è mondo. Mi faccio l’onore di citarmi “cinque solide gomene inchiodano l’uomo qualunque al mondo”. Una è il bisogno di varietà (2), di far passare il tempo, ingannare l’attesa, riempire. Tutto va bene. videopoker, gratta e vinci, femmina, stadio, shopping, whisky, tennis, bagni di mare, vongole, tabacco, vino, gamberi & caffè. Uno si dà al parapendio e sbava dopamina per il silenzio dei cieli rotto dal solo verso di una aquila. Ed è felice. Dimentica la routine. Una altro si fa servire pasta & fagioli e in quelle densità, si perde. È sballo. Uno fa vibrare le casse della sua utilitaria e così conciato passa per la via principale del paese. E sta bene. Uno si traveste da guerriero virtuale stile Star Wars, e gioca ad uccidere col raggio laser il ragioniere vicino di casa. L’importante è tenere il cervello impegnato.
“Sballo dunque sono”(3): così andrebbe oltraggiosamente aggiornato ai nostri tempi il solenne “inventum mirabile” del grande Renato, oggi sicuramente molto meno noto al grosso pubblico di Vallanzasca o di Zero, quello dei “sorcini”. Sballati di tutto il mondo, dormitevi!


Vidi una volta un poetazzo da bar che rapacemente ghermì un boccale di birra dalle mani di un tentennante giovinetto, e d’un fiato lo sorbì levando il bianco degli occhi al soffitto. La birra gli regalò una frazione di sballo. “Non sono mai stato felice per più di otto minuti di seguito” disse una volta Woody Allen. Ragione da vendere. Dura poco lo sballo. Ma ci si riprova in continuazione.


Ingannare il tempo, farlo passare, non sentirlo. L’ossessione umana più vera. In materia, tutto si equivale: “In fondo è la stessa cosa condurre popoli o ubriacarsi in solitudine”, scrisse una volta, a Parigi, un acido bassottino di genio, che per sballarsi si faceva di tabacco (chi è? Indovinatevelo), intendendo che con il tempo, l’importante è dimenticarlo, e non scherzarci troppo, dato che se avete l’ardire di guardarlo direttamente in faccia, c’è caso che vi impietrisca con il suo sostanziale nulla. Le voilà: “Tutto stanca. Nulla basta”. Dunque, organizzatevi. E guardatevi dal fissare in faccia la Medusa. Io ho risolto viaggiando. Quando posso. Sennò, più modestamente, passeggio.
Nel 2006 una casualità semicomica congiunta a pigrizia, mi sbarca sulla spiaggia di Terracina davanti all’inquietante Pisco Montano, torre di pietra onnipresente. Due giorni di incantevole precarietà, sul filo di ferrovie semidimenticate da dio e dagli uomini. Nel 2007 torno invece in Sicilia dopo 27 anni di assenza. Vengono di lì i miei ante-nati. Di albergo in albergo, di stazione in stazione, di vagabondaggio in vagabondaggio, rotolo lentamente verso Siracusa: Palermo, Messina, Taormina, Giardini-Naxos, Acireale, Catania. Ogni giorno lunghissime camminate. Nel 2008, Gargano; dopo dieci anni, ancora Puglia. In giro per Vieste, Peschici e Manfredonia -ogni tanto visitato dal ciclico dubbio di stare perdendo tempo- mi diletto della poco nobile arte della presa a tradimento di corpi di miei simili (pazienti non informati), alla scoperta di sonni tipici. Ancora una volta si aggregano note sparse, foto, postscriptum, fluttuazioni d’umore, minimalia ed inezie che potrebbero non interessare che me. Terzo libretto; terzo piccolo Caos. “Ombre e Viaggi” 1999, “Voci e viaggi”, 2004, “Sonni e viaggi”, 2011. Ultimo?Nel testo, tre codici grafici: i corsivi (Times, corpo 11), preceduti da cronotopi in grassetto, sono note dal vivo non riviste; prelevate dai taccuini così come erano; i postscripta sono appunti varie estratti da taccuini domestici e altra cartaccia varia (non di viaggio); le reSpirata, (corpo 10 AppleGaramondLt), sono oggetti psichici quasi estinti, recuperi forzati; a volte pallidi flussi spontanei, frammenti volubili; la mente riacchiappa di colpo una scenografia, un colore, un suono; riemerge improvvisamente un tutto: uno squallido albergatore assonnato in un ufficio pieno di fumo a Terracina, una arzilla vecchietta-portinaia inorridita alla idea di una ricevuta a Giardini-Naxos; un ostinato camminare su una litoranea, sudato, valigetta alla mano, alla ricerca dell’albergo perfetto; un frammento se ne porta un altro…una strana piazza di Messina con quattro cantonate monumentali, la anonima vista da una finestra in un albergo di passaggio, un odore sentito, la faccia di un casuale compagno di viaggio … mentalità estreme, ai limiti del possibile. Viaggiare, “Drift Away”. C’è un bellissimo passaggio di un intervista a John Huston: il tesoro della Sierra Madre è un petesto; l’importante è andare sulla Sierra Madre; utilità di processo e utilità di scopo, distinguono gli economisti.
Ecco, davanti al tavolino del bar, nel mio piccolo angolino di universo, è comparso il poetazzo di prima, videopokerista incallito: la moneta cade, le rotelle colorate girarano, le fanfare suonano. Gioca e brontola. Si perde. È sballo.



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venerdì, 16 dicembre 2011
La mia amara considerazione all’Italia(na)

   

Aspetta che restiamo qui. Sì, aspetta, Stato Italiano, che dopo aver sfruttato le tue scuole, le tue aule, i tuoi docenti, i tuoi libri, aspetta che restiamo qui… Hai visto come siamo poco riconoscenti? Stai sicuro che io - e come me altri mille -   dopo aver speso anni china sui libri, ottenendo buoni risultati e magari contemporaneamente lavorando (per necessità e non per virtù), resterò qui a guardarmi morire; a lasciare che tu, Stato Italiano, mi faccia marcire nella banalità di "non essere un nome”, di "non essere figlia di”.
Stai certo che rimarrò qui a difendere una cultura, una storia, un paese, che nel momento in cui riuscirà a darmi - ipoteticamente -  un lavoro, si prenderà il 45% di quello che mi spetta. Starò sicuramente qui, a vedere chi,  “onesto per forza”, fa i conti con bollette da pagare e le spese da sostenere, mentre medici che lavorano in studi privati (spesso all’interno di strutture statali), ai quali i più si rivolgono per evitare di morire nell’attesa che venga fissato loro un appuntamento in una struttura pubblica, ti chiedono: “Vuole la ricevuta? Sono 50 euro in più”.

Starò sicuramente qui, dove gli scontrini sono un optional, dove le persone che hanno molto evadono senza paura, e quelle che hanno poco pagano per tutti. Starò sicuramente qui dove il mio futuro sarà segnato da una classe politica che NON CAMBIA, che effettua manovre incomprensibili, al di fuori di ogni più semplice logica finalizzata alla massimizzazione del benessere, qualsiasi teoria di politica economica si scelga; d’altronde si sa, gli economisti non legano con l’equità. Starò sicuramente in uno Stato in cui il “welfare”, sulla carta è una delle più nobili caratteristiche, mentre nella realtà si traduce in code interminabili e pochi controlli, che favoriscono chi ha il tempo, la voglia, le capacità di pensare a come “fregare la legge”.

Ho proprio voglia di stare qui, dove sotto gli occhi di tutti si svolgono le più palesi ingiustizie e nessuno fa nulla. Ho il grande desiderio di far parte di una nazione che ha dato al mondo tutto quello che poteva, e che ora, rapidamente, si accartoccia su se stessa senza capire che essere nel Mediterraneo è ancora un privilegio, senza capire che con 7500 km di coste - ma anche con Alpi ed Appennini - si potrebbe vivere quasi solo di turismo.

Starò sicuramente in un Paese dove le lobbies vincono sempre, dove il povero (e onesto) sborsa e il ricco e furbo se ne frega. Starò sicuramente in un posto dove gli studenti prendono le borse di studio “in base al reddito”, arrivando poi in facoltà con Mercedes e borsa Gucci. Starò qui, dove chiunque passa dal pagare la più alta tassa possibile all’essere “borsista” senza alcun tipo di sospetto e relativo accertamento.
Starò qui, dove 2+2 fa 4, ma c’è sempre bisogno di un secondo, terzo, quarto, ennesimo parere.

Aspetta, perchè resterò qui…a creare e produrre per uno stato che non mi darà una pensione, uno stato che fa riforme sulla base di astrazioni, tramutabili in risultati concreti folli… starò in uno stato che permette a sacche di precari di cullarsi e esistere, consentendo a insegnanti di passare in ruolo grazie a punteggi ottenuti con corsi on-line o decenni di supplenze; facendo in modo che arrivino sino all’età di 40 anni ancora col sogno del posto statale.

E’ veramente paradossale, Stato Italiano, che Tu, così pieno di giovani "brillanti" come me e altri, dopo aver investito soldi e speranze nelle tue generazioni, non riesca a credere che vogliono DAVVERO stare qui, lavorare in questo Paese, metter su famiglia e (ri)far grande l’Italia; e faccia invece di tutto per mandarci via. Dopo aver sfruttato tutto quello che hai potuto darmi e aver sviluppato al massimo le mie capacità critiche, me ne andrò, perché, benevolmente forse, sei Tu stesso che me lo suggerisci. 



                                                                                                                                     Veronica Bandu 

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mercoledì, 07 dicembre 2011
straziami ma di carta saziami

  
 

Ronald Reagan raccontava spesso una storiella della sua vita da militare: nell’ufficio dove lavorava, c’era un grosso armadio pieno zeppo di vecchi documenti, tanto inutili che si decise di chiedere all’Amministrazione di poterli eliminare; la risposta fu che si procedesse senz’altro alla eliminazione, a condizione di fare copia di ogni documento distrutto. Nessuno parlò più dell’armadio. Tenebrose logiche della burocrazia. L’aneddoto si risveglia guardando che succede oggi nella scuola, dove scadono profitto e comportamenti, senza che smetta di crescere la carta da compilare. Un tempo bastavano diario di classe, registro personale, programmi, pagelle, relazioni finali. Ora il professore “moderno” compila anche schede di valutazione intermedia, segnalazioni alle famiglie su debiti e carenze; riepiloghi analitici di assenze, ritardi, note disciplinari; rilevazioni statistiche. In buona sostanza duplica il già esistente. Pare che un solo imperativo regga le sorti della scuola: compilare. La cosa raggiunge il parossismo durante gli esami di maturità, dove, oramai, sembra non si possa più dare un voto senza compilare qualcosa; e, tra griglie, schede, verbali, registri e contro-registri, si passa metà del tempo a fare gli scribacchini. Dicono che schedare il mondo rassicuri; contrasti ansie sottili; c’è un vago sentore di “barocco”, nella faccenda. Questa burocratizzazione porta un secondo micidiale colpo ad una professione già pesantemente colpita dall’ inselvatichire dei comportamenti (bel regalo dei modelli di nullità morale e mentale veicolati dalla tv). La mortificazione di quel poco che restava del prestigio e del protagonismo degli insegnanti, è stato il tragico errore di un riformismo tanto “scientifizzante” quanto velleitario. Piaccia o non piaccia, l’insegnante non è un semplice impiegato; e la scuola non è la mera gestione di un servizio. La si potrà riempire delle più avanzate novità tecnologiche, portare ad un grado di perfetta organizzazione, trasformare in un unico grandioso casellario, la sua sostanza profonda non muterà; il suo riuscire o fallire continuerà a passare attraverso quella indefinibile cosa che è la “contagiosità” intellettuale che ogni insegnante può e deve avere; e che, oggi, non è più incoraggiato ad avere. Una qualità per la quale pare non esista “la griglia”.

                                                                                                        Gigi Monello 

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mercoledì, 26 ottobre 2011
la storia "purchessia"

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 Allo studioso dello scorretto argomentare che tra cinque lustri preparerà il suo tomo intorno al ventennio berlusconiano, non sfuggirà la perla che Giuliano Ferrara ha di recente depositato nello sconfinato giacimento. Ospite di Mentana e accanto ad uno Scalfari accennante disgusto, il Giuliano nazionale architettava a difesa del Principe il seguente raziocinio: “gli Italiani sono abituati a sentirsi rappresentati da fenomeni grandiosamente anomali … Garibaldi, Mussolini, Berlusconi”. Potremmo definirlo sofisma di “vaghezza e mescolanza”. Notissimo trucco: consiste nel mischiare insieme cose diverse e persino contrarie, spostando l’attenzione sopra una generica somiglianza. Un tempo bastava una discreta scuola media per non cascarci; adesso, a seconda dei casi, neppure aver finito il liceo. Ora, come tutti dovrebbero sapere, Garibaldi non esercitò mai alcun potere di governo (mentre gli altri due emeriti, sì), e tanto meno esercitò potere stando dalla parte di minoranze privilegiate (e gli altri due emeriti, sì). Contribuì, caso mai, a spazzare via poteri forti e marci (Borboni), stando sempre dalla parte di maggioranze di derelitti. Dove, allora, la somiglianza? Facile: fu, come gli altri due, personalità energica e seducente, ed “entrò nella storia”. Qui, il nostro opinionista, va capito. Qui, alla apologia del Signore, si associa in lui un substrato personale più profondo; potremmo dirlo l’ “estetismo del segretario di corte”; atavico, italianissimo, fatale; ne fu colpito pure Machiavelli al cospetto di Cesare Borgia; capita a chi soggiorna troppo nelle anticamere del potere; spinge a vedere la storia come un grandioso, avventuroso romanzo; fatto di gesti, ebbrezze, individui straordinari; uno spettacolare contenitore nel quale possono stare Dracula come madre Teresa di Calcutta. È lo stesso Giulianone a confessarci la sua debolezza; ascoltiamolo: “gli Italiani sono abituati a sentirsi rappresentati da fenomeni grandiosamente anomali … Garibaldi, Mussolini …; e Berlusconi è uno di questi, e per questo lui entrerà nella storia, mentre alcune centinaia di nani che lo criticavano con sussiego moralistico non ce li ricorderemo neanche in glossa”. Capito? Consoliamoci, dunque. Ridono di noi pure in Madagascar, ma abbiamo un nano piazzato nella storia.

Gigi Monello



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sabato, 10 settembre 2011
La scuola non è un pullman

 COSA SONO QUESTI VOTI?!

Se avete un amico o un parente insegnante, chiedetegli quale aspetto del suo mestiere gli procuri più frustrazione. Credo vi risponderà, “trovarmi di fronte adolescenti che sempre meno accettano di lasciarsi giudicare, e genitori che sempre più spesso li appoggiano”. Il fenomeno è in costante aumento e, come confermano gli studi sul burnout nelle cosiddette helping professions, la pressione psicologica sui docenti è oramai ad un livello di guardia.

Naturalmente, le cose non succedono per caso, e se a questo bel traguardo si è arrivati, vi dovrà pur essere una ragione. A farla breve, direi che la faccenda comincia a metà degli anni ottanta, con l’esplosione delle TV commerciali, e si perfeziona dieci anni dopo con il trionfo di Internet. Di fronte all’espansione vertiginosa delle comunicazioni e al diluvio di messaggi-flash, pulsioni consumistiche, suggestioni e volgarità varie, quotidianamente scaricato sui giovani, si rispose col più fatale degli errori; invece di spostare risorse verso la Scuola, affinché si attrezzasse per restare luogo alto dei saperi complessi, centrato su un docente-intellettuale, si preferì cavalcare l’onda e spostare la scuola stessa verso un modernismo scomposto e velleitario; finendo per trasformarla in quell’ibrido luogo di socializzazione che oggi vediamo.
È da allora che gli istituti hanno preso a riempirsi di un mare di iniziative, servizi, attività (dalla consulenza psicologica per fidanzatini in crisi alla patente per i motorini), e a farsi penosamente concorrenza a colpi di depliants colorati e allettamenti da fiera. Il tutto all’insegna di quel capolavoro del pensiero umano che è stato la Scuola-Azienda.

Si è trattato, in fondo, di una storia tutta italiana: quando mancano i quattrini, si ricorre alle due più antiche risorse dell’anima nazionale: l’espediente e la retorica. Il teorema modernista-aziendalista, accompagnato da preziosi acronimi, suonava grosso modo così: la scuola è un servizio sociale; chi vi è fisicamente “incluso” deve “essere servito”. All’incirca come accade con una azienda di trasporti: se uno sul pullman ci sale, a destinazione ci deve arrivare (“successo formativo”). Se poi durante il viaggio ti distribuiscono pure le caramelle, tanto di guadagnato (“arricchimento dell’offerta formativa”).
La caduta degli standards minimi di apprendimento era inevitabile. Come inevitabile era il corollario “sociale” di tanto geniale trovata: “Quello dell’insegnante è un mestiere sostanzialmente facile, e chiunque abbia un certo grado di istruzione può metterci il becco”.
Finale dei finali? Questa soave scenetta: mese di Maggio, ultimi colloqui con le famiglie, una collega (serissima) incontra un genitore: “Buongiorno, sono il padre di tal dei tali, faccio il medico, mia moglie è insegnante, lei che intenzioni ha con mio figlio?”. La risposta fu calma e dignitosa; ma quella più giusta sarebbe stata, “Caro dottore, quando avrò la sfortuna di venirla a trovare, mi guarderò bene dall’entrare nelle sue diagnosi. Lei mi usi la cortesia di non entrare nei miei voti”.

Gigi Monello

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sabato, 18 giugno 2011
risveglio lento dall'idiozia
    




http://www.pieroricca.org/


“L’Italia peggiore” non sono certo i precari, come ringhia l’orrido Brunetta. Ma la banda di ignobili individui che in questi anni hanno occupato buona parte delle pubbliche istituzioni all’ombra del patto di potere Lega-Pdl. Gli “uomini del fare”. Volgari, falsi, incapaci. Senza una reputazione da difendere, pronti a qualsiasi bassezza. Peggiori perfino di coloro che votano le liste bloccate che li candidano. Fedeltà e spudoratezza sono le attitudini per le quali il Capo li ha selezionati. Mai, nemmeno un giorno si sono comportati da esponenti di un’ipotetica classe dirigente, questi individui senza qualità, miracolati da un’epoca in cui la politica era diventata fango. Che dalla gran voglia di cambiamento dei primi anni novanta potesse venir fuori una cricca governativa così squallida, così verminosa, nemmeno la fantasia più perversa avrebbe potuto immaginarlo.

A questo punto i danni sono incalcolabili, a cominciare dalla piaga del precariato. Ma nessun inganno è eterno. Dopo un ciclo quasi ventennale è partito il conto alla rovescia. La maggioranza degli italiani, con colpevole ritardo, ora sembra averli smascherati. Forse è arrivato il tempo di vederli affondare sotto il peso dei loro misfatti, di vederli tornare a essere riconosciuti le nullità che sono sempre stati. Dobbiamo cacciarli al più presto, senza riguardi. Ma non dimentichiamoli. Teniamo a mente i nomi e i volti. Non dimentichiamo mai in quale conto hanno tenuto verità, giustizia, democrazia. Molti di loro tenteranno di riciclarsi sotto altre insegne, confidando nella fiacchezza morale e nella facilità di oblio di un paese in cui il 25 aprile sera non si trovava più un fascista. Ancora qualche giorno e non si troverà più un berlusconiano.


(di Piero Ricca)
  

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domenica, 13 febbraio 2011
Berlusconi è minoranza nel Paese - Peter Gomez

In questi ultimi anni la politica e il giornalismo italiano sono ruotati tutti intorno a una grande bugia: la falsa convinzione che Silvio Berlusconi e il berlusconismo fossero maggioranza nel Paese. I numeri, per la verità, hanno sempre detto il contrario. Anche quando Berlusconi era all’apice della sua forza (le elezioni del 2008) mai ha saputo raccogliere il 51 per cento dei consensi. Il Cavaliere si è invece fermato al 37 per cento dei votanti (cosa diversa rispetto agli aventi diritto al voto), per poi perdere seguito ad ogni tornata elettorale. La grande menzogna, però, è stata ripetuta, raccontata, enunciata e analizzata talmente tante volte, da finire per essere presa per vera. Con rassegnazione, e senza necessariamente riferirsi solo al Cavaliere, in molti dicevano che il nostro Paese ha la classe dirigente che si merita. Che una nazione fatta di furbi, di evasori fiscali, di fannulloni, di corrotti e di raccomandati, poteva solo essere rappresentata da Berlusconi e dai suoi vari cloni.
Ebbene, si sbagliavano. L’Italia era (ed è) un’altra cosa. Gli italiani – sia a destra che a sinistra – sono in maggioranza un popolo straordinario. Fatto di donne e di uomini che si ammazzano (quando ce l’hanno) di lavoro. Che s’impegnano in quasi 500.000 organizzazioni di volontariato. Che vanno all’estero (4 milioni) per riuscire a fare quello che in patria è impossibile. Questo non è (solo) il Paese delle mafie più potenti del mondo, della classe politica più corrotta di tutta l’Europa occidentale. Questo è, invece, il Paese di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, delle associazioni anti-racket, della Confindustria e dei commercianti che in Sicilia dicono di no al pizzo. È il paese di Giorgio Ambrosoli, di Libero Grassi, di Peppino Impastato, dei giornalisti minacciati in Calabria, dei poliziotti che si pagano da soli la benzina per le loro auto, dei dipendenti pubblici che si portano da casa i computer per far funzionare i loro uffici, degli operai che occupano le fabbriche e salgono sui tetti chiedendo solo di poter lavorare.
L’Italia, insomma, è molto meglio di chi al Governo e in Parlamento immeritatamente la rappresenta. E in questa domenica di febbraio, grazie alle donne, cominciamo ad accorgercene. Mai prima d’ora si era assistito a manifestazioni tanto imponenti organizzate non dai partiti, ma dalla gente. Centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza non per moralismo, ma per dignità. Senza odio, senza violenza, hanno detto che loro alla grande bugia non ci stanno più.
Berlusconi che pure, grazie alla compravendita dei deputati, ha ancora la maggioranza alle Camere, è sempre più minoranza nel Paese. Come dimostrano i vari flop delle manifestazioni organizzate dal Pdl, anche tra chi ha votato il Cavaliere è ormai difficile trovare qualcuno disposto a spendersi per lui. Il Re, non solo metaforicamente, è nudo. Inutile però illudersi. Il presidente del Consiglio non si dimetterà. Non lo farà ora. Per costringerlo a lasciare ci vorranno molti altri 13 febbraio, molte altre piazze, e una finalmente chiara richiesta di elezioni anticipate. Solo così chi in Parlamento milita al fianco di Berlusconi- non per lealtà, ma per interesse – azzarderà due calcoli. E comincerà a capire che reggere il sempre più pesante trono di un vecchio Sultano in agonia non conviene. Perché al momento dell’inevitabile caduta tutta la corte finirà travolta.


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lunedì, 03 gennaio 2011
Illich, missione compiuta

Poche settimane ancora (1) e il rito fatale si consumerà: i Professori consegneranno relazioni finali e programmi. Anni fa, uno spiritoso collega raccontò ad una rivista specializzata di aver ricopiato pari pari nella sua relazione, il resoconto giornalistico dell'ultima partita di calcio della squadra della sua città. Così, tanto per vedere cosa succedeva. Naturalmente non successe nulla. È notorio che nessuno legge quei malinconici trenta chili di carta prodotti nella circostanza.
Non ho mai stravisto per le relazioni finali e confesso di averne riciclate molte (ma è peccato diffuso). Diverso per i programmi. Quelli, no. Quelli col tempo crescono, per me, in onore e rispettabilità. Da quando una legione di pedagogisti si è messa a sdottoreggiare sul fatto che la Scuola non può più vivere di soli programmi, cioè di contenuti; e che occorrono "progetti" e "attività", beh, il rito della consegna dei programmi mi sta sempre più simpatico. Oggi è la stessa parola a fare un po' ribrezzo, tanto che sono stati inventati gli OSA, che sono gli "obiettivi specifici di apprendimento"; che, certo, suona più "scientifico", più intelligente, mentre "programmi" (e la vecchia "programmazione") sa di cosa polverosa, retriva, di corte vedute. A volte viene il dubbio che al Ministero esista l'Ufficio Acronimi.
 
Da sempre pensavo che fosse nei programmi la vera anima della scuola, in quel complesso sistema di contenuti e relazioni che "fa" una disciplina; e in quelle tante, viventi ramificazioni che la collegano a tutte le altre. Mi sbagliavo. La vera sostanza pulsa altrove. Ecco di che deve sapere oggi l'insegnante moderno: privacy, power point, orientamento, accoglienza, disagio socio-affettivo, educazione alimentare, sessuale, stradale; giornate a tema, viaggi, animazione, Explorer, eventi. Alla docenza si è sostituito il pulviscolo.
 
Circa 40 anni fa un Austriaco acuto e originale lanciò il suo messaggio, "Descolarizzare la società". Sia pure per vie che lui aborrirebbe, sta succedendo.


(1) La prima pubblicazione di questo articolo risale all'Aprile 2004

                                                                                                          Gigi Monello 

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