giovedì 31 gennaio 2013

lapis obsiana




Il tempo


Immaginate il silenzio abissale di una notte dei tempi dell’Ossidiana, ottomila anni fa, in Sardegna, sotto un cielo nero pece, nitidissimo e scintillante, e col soffio improvviso del vento tra anfratti e cespugli. Che doveva apparire il mondo, all’uomo, in quelle notti?
Esercizi scivolosi dell’immaginazione, astrusi, incontrollabili. Troppa distanza, troppo precipite, insondabile vuoto. Eppure resta il segreto desiderio di provare, di ritrovare il passato.
Limpidissimi e stellatissimi i cieli dell’antichità, vicini, animati, incombenti: chi potrà più riaverne l’immagine? Dicono che, a quei tempi, anche solo salire una modesta collina accorciasse la distanza dal cielo; e che, nell’idea che se ne erano fatta, non fosse neppure impossibile, per alcuni popoli, addirittura salirvi nel cielo, costruendo una scala sulle più alte montagne. Luoghi ierofanici, le montagne; e tetto il cielo. Tetto vero, non metafora poetica, immensa impalcatura insieme vicina e misteriosa, presente e piena di dei: chi potrà più riprovare quella paura? Nessuno, forse. Forse accade anche qui ciò che i fisici ci dicono accada in quei loro intimissimi fenomeni della micromateria, dove il solo osservare è già un cambiare. Forse, inavvertitamente, carichiamo il passato di una incalcolabile particella delle nostre consapevolezze; e i nostri pensieri, per quanto studiosamente depurati -o, forse, proprio per questo- cambiano invisibilmente quelli che vorremmo abbiano avuto gli alieni abitatori di quel tempo.
Persi per sempre. Non più raggiungibili.

Un giorno, un uomo senza volto, sorpreso dalla notte a Trebina Lada, affacciatosi a quel severo spalto basaltico, avrà volto in giro lo sguardo per quella fissità spettrale, provando quel primitivo sbigottimento per l’esserci stesso del mondo. E totale gli sarà parsa la separatezza tra “vivo” e “non vivo”, la serpe e il ruscello, la roccia e la pianta, pezzi di un mondo dove tutto è, però, da sempre, contemporaneo.
Incommensurabilità dei nostri sguardi: abbiamo rotto l’unione incantata degli esseri, dissolta la contemporaneità, costruite esatte scale graduate del Tempo, rivoltate le viscere del pianeta, toccate le croste di altri lontani mondi non nostri, sfondato il cielo, fatti infiniti i mondi. Noi sappiamo. Sappiamo che quelle montagne hanno vegliato per durate interminabili un mondo vuoto; che dalla loro materia oscura e inerte è venuta, con empia, dissacrante congiunzione, la vita; che l’Ossidiana è lava, violenta materia di fuoco venuta da sotto.
Non così quella notte a Trebina Lada.

Si dice che la durezza ancestrale del profilo del paesaggio abbia dato un’impronta di scabra sobrietà all’animo dei Sardi, radicandone la mentalità nell’aspro reale succedersi delle opere e dei giorni. Ma perché non pensarlo, questo, un evento più tardo?
L’uomo di quella notte, sulla montagna, raccolse un nero sasso di Ossidiana, guardò l’oscuro tetto, e con smarrita dolcezza vi vide un pezzo di cielo caduto.


la cosa

Dura e fragile allo stesso tempo: due doti opposte nella stessa cosa. Un mistero inspiegabile per il senso comune. Il fatto è che non distinguiamo durezza da resistenza all’urto e alla deformazione; e, di qui, l’equivoco. Materia strana del mondo l’Ossidiana, insieme dura e fendibile. A guardarla, sprigiona da quella densa nerezza compatta, lucentezze vitree di arcana nobiltà; ma tutto sinché non le si applica una forza: allora, spintala nel gioco brutale delle umane utilità, diventa docilissima alla mano dell’uomo, dominabile. Colpita nel modo giusto si scheggia con facilità secondo linee di frattura tipicamente concoidi, talora esfoliandosi a mo' di cipolla; ne viene una ricca gamma di manufatti dai margini duri e taglienti.
Fragile e dura: fu questo a farla grande e preziosa. “Oro nero”, “acciaio”, “energia atomica” della preistoria, queste le risonanti iperboli degli storici. Per millenni, in tutto il mediterraneo, fu estratta, cercata, venduta, comprata: da Milo a Lipari, Pantelleria, le Baleari, la Sardegna. Qui, la sua presenza a Monte Arci, a pochi chilometri dal mare, si dice sia stata la causa d’attrazione più probabile di stabili genti neolitiche nell’isola. È una nera pece vetrosa senza cristalli, vomitata dall’antico vulcano nell’Oligocene, e subito raffreddatasi sui suoi fianchi. Per tempi infiniti rimase infissa nelle costole trachitiche della montagna, o sciolta in ciottoli nelle sue gole, immobile, ignorata. Poi, un giorno, pensando con odio un nemico, un uomo la guardò.


la parola

A tutta prima ti fa pensare ad “Ossido”, Ossidiana; all’origine chimica della sostanza, a “ossigeno”. Non ci vuol molto a capire di essere del tutto fuori strada.
La parola, d’altronde, ha una sua acustica seduzione che può irretire nel gioco delle ipotesi immaginose. Quando, infine, si mette mano alle carte, l’imbroglio è totale: non nome comune di cosa generale, ma nome proprio, di individuo umano, particolare, definito e insieme nebuloso.
Narra Plinio in un passo delle sue sterminate “Storie Naturali”, che fu un certo “Obsius” a scoprire per primo la negrissima pietra in Etiopia, da cui la denominazione antica di “lapis obsiana”. Una successiva, erronea lettura dei codici pliniani, mutò “Obsiana” in “Obsidiana”. Lo scivolone di un erudito dallo sguardo offuscato dal sonno. O, forse, una crisi improvvisa di narcisismo, di volontà di potenza, la voglia beffarda di metterci del suo, la convinzione che suonasse meglio “Obsidiana”.


                                                                                                        Gigi Monello