venerdì 20 aprile 2012

due P

Due grandi liturgie della P segnano inizio e fine di un anno scolastico. Ad Ottobre il docente presenta la Programmazione. A Giugno consegna i Programmi. La prima volta teorizza di metodi, obiettivi, “fabbisogni orari. La seconda dichiara il fatto (e lo firma). In mezzo c’è l'anno scolastico, con le sue tante pieghe avventurose. Non ho mai stravisto per la programmazione; forse perché ho vissuto in pieno la sovreccitazione degli anni delle tassonomiche declamazioni, quando di certi colleghi era lecito sospettare che leggessero Bloom anche dal barbiere. Ho continuato, invece, a nutrire rispetto per i programmi, che ho sempre sentito come momento di verità. E che non vivono giorni facilissimi. È un dato oggettivo che una grande varietà di attività extra erode di fatto il monte-ore destinato al lavoro “disciplinare”. Un po’ perché atterriti dal mutamento antropologico degli adolescenti, un po’ per stanchezza, un po’ per paura di procurare frustrazione, un po’ perché questo pare lo “spirito del tempo”, un numero considerevole di insegnanti ha accettato (magari con qualche mugugno) questa impostazione; dimodoché i 200 fatidici giorni di lezione convivono oramai stabilmente con “orientamenti”, conferenze, viaggi, incontri, giornate a tema, spettacoli, visite, corsi, “laboratori”, sportelli, questionari, progetti. Ovviamente non si tratta di stabilire se tali attività abbiano o meno valore culturale; in assoluto, quasi sempre lo hanno; si tratta, piuttosto, di misurare la loro “efficacia” in rapporto allo scopo principale di una scuola; in una parola, di sapere se i vantaggi non siano per caso inferiori agli svantaggi. “Impossibile fare diversamente -si sente ripetere- i ragazzi di oggi devi prenderli così”. E potrebbe anche essere. Solo che mi rimane un dubbio: siamo proprio così sicuri che quando ci dicono di non volere provare frustrazione, gli adolescenti ci stanno realmente dicendo la verità? Se spingo il pensiero indietro rivedo Carlo Melis, straordinario professore di filosofia, morto pochi giorni fa, a Cagliari, di anni 98; e rivedo quel suo terribile aggirarsi tra i banchi del Liceo Dettori anni ‘70; e quel suo ancora più terribile bloccarsi all’improvviso per rivolgere ad uno di noi un secco, “Continua”. Sì, certo, ne somministrava di bella frustrazione, Carlo Melis ai suoi allievi. Ma che scuola.

Gigi Monello