giovedì 28 novembre 2013

ODE ALL' AUTOGESTIONE






La fanno anche al “Dettori”
la fanno anche al “Siotto”
vogliam l’autogestione!
vogliamo far casotto!

Lasciatecela fare
soltanto un pochettino
in fondo cosa cambia?
aumenta un po’ il casino

In fondo che vi importa?
c’è aria di Natale
non fate autolesione
vi scoccia riposare?

Perché noi la facciamo
non lo sappiamo dire
ma è un fatto naturale
è come starnutire

Voi sempre siete fissi
cocciuti a domandare
C’è poco da capire
Noi la facciam per fare

La magica parola
non vuole dire niente
però fa la sua scena
ha un suono intelligente

orsù socializziamo!
c’è gran bivacco qui
chissà che non mi faccia
una di quarta G

Signori professori
amanti del rovello
spegniamo questa scuola
clicchiam Grande Fratello !

Di dubbi voi riempite
ai giovani la mente
com’è che non capite
che il vuoto è più attraente?

Un vecchio Professore
Un ex del sessantotto
fu allor sentito dire
“le palle mi son rotto”









giovedì 24 ottobre 2013

la settimana storta




Lunedì: il dirigente Lepidazzi mi guarda e con schifata cordialità mi dice che dopo “attento monitoraggio” si è accertato che l’abbigliamento prevalentemente scuro da me indossato ha effetti psico-dinamici deprimenti sull’utenza, “Professore, lei mi abbassa il TIS”. Deve essermi comparsa in volto leggera meraviglia, perché Lepidazzi ha subito aggiunto, “Professò, ma dove vive? Il Tasso di Inclusività della Scuola!”. E ha concluso, allungandomi un biglietto da visita, “Tenete qua, è il mio sarto cinese; prezzi onesti, ma non chiedete la ricevuta!”.

Martedì: scala B, seconda rampa, in cima avvisto la trista sagoma di Pezzoraro, 5 G. Saluta, e con faccia scurissima mi dice che è morto di ictus lo zio Gino di Brescia, provetto artigiano del ferro, celibe, onestissimo, colonna della famiglia. Un fulmine a ciel sereno. “Prof ! Ho l’orribile sospetto di essere entrato in fase BES !”. Deve essermi comparsa in volto leggera meraviglia, perché Pezzoraro ha subito aggiunto, “ Prof! Ma dove vive? Lo sanno anche i fotocopiatori che cosa sono i BES! Bisogni Educativi Speciali! ‘Na figata!”. Naturalmente - rassicura - verrà sottoposto ad expertise da parte del GLI (Gruppo di Lavoro per l’Inclusione), al fine di fugare ogni dubbio sulla sua buona fede e fornire dati utili alla stesura di un ben calibrato PDP (Piano Didattico Personalizzato). Nel frattempo vorrebbe esenzione di giorni 10 dalle interrogazioni. “Prof - mi confessa avvicinandosi a distanza zero - il disagio socio-affettivo-cognitivo è così forte che non riesco a bere neppure una birra!”. “Stai messo male”, gli dico.

Mercoledì: ora di ricreazione, mentre bevo un caffè con Trabocco, che per la millesima volta alterna maledizioni contro Pezzoraro a celestiali fantasie di pensione, ecco materializzarsi dal nulla la mamma di Bellodono, 4G (notissimo per avere, l’anno passato, incendiato il cassonetto giallo della carta, in cortile, ed averla poi fatta franca grazie alla appassionata arringa del collega Fumisterio; che, evocando le combustioni di Burri, convinceva il Collegio che “non di banale vandalismo” trattavasi, bensi di “manifesto caso di AIIA” - Adolescenziale Impulso Inconscio all’Arte -. Ad udir ciò, una lacrima aveva rigato la gota sinistra della Napolazzi, decana di Storia dell’Arte a quattro mesi dalla quiescenza). Eclissato Trabocco, mamma Bellodono mi si piazza davanti, e, a labbra tirate e petto gonfio, mi sibila che, “È ora di finirla!”. Di fronte al mio intestardirmi - unico fra tutti - nel negare la sufficienza al figlio, mi notifica di aver avviato formali contatti con la Commissione OFFA. Deve essermi comparsa in volto leggera meraviglia, perché la Bellodono ha sghignazzato acida: “Ah! E lei è professore e non sa nulla dell’ OFFA?! Ma dove vive?! Commissione Anomalie Frequenti dell’Offerta Formativa! Se ne convinca, caro lei! Lei è un evidentissimo caso di DSI. Si curi!”. Sbalordisco, “Che sarà mai un DSI?”. Mi giro, vedo la vicepreside Mezzotrono, ha un sorrisetto tra il viscido e il cameratesco. Era lì a due passi, ha sentito tutto. “Scusa, cos’è un DSI?”. “Cavoli! Non lo sai? Ma tu, da che stella di natale scendi? Disturbi Specifici dell’Insegnamento, son due anni che se ne parla. Comunque son robe lente, e non è detto che si arrivi al CID (Inidoneità Didattica Certificata). Ma santa pazienza! Un tocco di furbizia, cribbio! Vuoi un consiglio? Vai sul sito del Ministero e scaricati il pdf del GRIDA (Guida al Recupero dell’Inclusività Didattico-Affettiva); e, intanto, prendi questo”. Mi passa un biglietto. È l’indirizzo di Zhang Fan Fan, il sarto del preside. È destino. Vestirò cinese.

Giovedì: giorno libero, passeggiata al mare. Incrocio Tazza, ex collega di matematica, in pensione dal ‘92, ottanta ben portati, formidabile conquistatore di supplenti. Uomo mai sfiorato dal dubbio. Da anni, regolare e implacabile, mi fa sempre la stessa domanda, “Colleghe carine?”.

Venerdì: fine delle lezioni, sto uscendo quando mi viene incontro, con bieca scartoffia da firmare, la bidella Fattapposta: “Professore, c’è posta per lei! Commissione VATER!”. Noto accenno di sorriso a mezzo labbro, guardo la sadica, emetto flebile “Ah…”; firmo, metto in tasca. A casa leggo: la Commissione Vigilanza Attinenze Territoriali comunica che i programmi da me svolti fanno registrare un Tasso di Attinenza Territoriale (TAT) dello 0,5%; tra i più bassi. Dovrò, pertanto, “correggere al più presto l’impostazione socio-didattica, valorizzando i legami globale-locale, ed evitare eccessi di astrazione non coerenti con una didattica olistico-competenzialista”. Deve essermi comparsa in volto leggera meraviglia; ma nessuno l’ha vista, dato che ero solo. Ehh…me lo diceva il caro collega Mezzasalma - spirato improvvisamente tre mesi or sono - che facevo male a snobbare il progetto, Saperi e sapori: didattiche del post-moderno tra contrada e cyberSpazio. Il cui titolo mi era sempre rimasto oscuro, ma che aveva fruttato ai partecipanti, oltre che ottima reputazione a scuola, una congrua razione di tortelli al sugo di lepre, il giorno stesso della consegna degli attestati. “Roba da leccarsi i baffi!”, aveva commentato il trapassato.

Sabato: collegio dei docenti: importantissime novità dal Ministero. Lepidazzi annuncia che con l’articolo 20 della lungamente attesa legge 45/13, la scuola sarà “rigirata come un calzino”. Sulla base del Primo Inoppugnabile Principio della Didattica (DIPP), secondo il quale, “Se Offrire non sempre è Includere; Includere è sempre, invece, Offrire”, il Ministero notifica che, dall’anno prossimo, il glorioso Piano dell’Offerta Formativa (POF), dopo anni di onorato servizio, andrà definitivamente in pensione, sostituito dal nuovo Piano dell’Inclusività Funzionale. “Signori - scandisce lento Lepidazzi - è cominciata la Scuola del PIF”.

Gigi Monello

venerdì 28 giugno 2013

Questione di uretra

Accaldate signore, dai salotti prestate alla politica, certificano disperate che nove milioni ancora lo votano. La bella marocchina, a pieni voti laureata in “senso pratico”, testifica “sua sponte” (il “Mavalà” rivede la forma) che negli eleganti dopocena del Principe, sexySuore danzavano, giarrettiere nel sottotonaca (il teste è a favore: sarà il caso crederle). Sul punto, irosi cortigiani di forte taglia e labbro dipinto (periodicamente accennanti bonarie tirate d’orecchie al Satrapo, onde apparire liberi), buttandola in confusione tuonano che processi alla “vitalità” non se ne fanno. Harem privati? disordini notturni? balli e amorazzi? Affari suoi. Dove sta il “penale”? Inossidabili arnesi rotti ad ogni servizio, camaleonti vicini a decrepitezza, a mille stagioni sopravvissuti, sibilano con smorfia obliqua di “pericoli per il quadro politico”. Come dire, “nulla ci fotte - sappiatelo - di barca comune, periglioso mare e aguzzi scogli; e dunque, attenti a voi: “chi tocca il Sire, muore”. Intanto, ossuti gazzettieri di famiglia, militi d’assalto gelidi in volto, arditi del Principe, pugnale fra i denti e schizzo di veleno sulla lingua, argomentano che le milionate parlan chiaro: quando uno nasce “fuoriclasse” (e lui “lo nacque”), nessuna meraviglia che rivali dappoco friggano e brighino per levarselo di torno. Ora, a noi moralisti, pedanti, senza spirito, nonché rosi da inconscia invidia per il SuperUomo, sia concesso di abbandonarci un attimo a frivola e astrusissima fantasia intorno ai nove sopraddetti milioni; e, per statistica probabilità, di immaginarne uno - uno e soltanto uno - cui sia toccata in sorte una bella stenosi uretrale grave col danno aggiunto di complicanze serie; spinoso malanno chirurgico, “bubua”, ci dicono i medici, che solo risolvesi con audace taglio al basso addome, “cielo aperto”, nonché sapienti dita avvezze a carezzar e ritoccar microstrutture. Che farebbe - chiediamo - lo sfigatissimo individuo qualora, di tutta botta, scoprisse che attorno al noto chirurgo deputato al laborioso maneggiare, aleggia fama di “disordini notturni”? (con o senza sexyInfermiere). Sudori freddi, immaginiamo; tremori, persino; e tempestosissimi dubbi. E ben si capisce. Di privata uretra, tratterebbesi. Mica di “imu” di tutti.

                              
                                                                                                               Gigi Monello

mercoledì 19 giugno 2013

numeri e santi andazzi

Prima di fare il preside, Claudio Cremaschi ha fatto l’insegnante di matematica. E si vede: il suo libro (“Malascuola”, Piemme, 2009) è pieno di numeri. Conosce bene la “macchina” di cui parla, e con spregiudicatezza ne racconta distorsioni, sprechi, piccole furbizie, qualche divertente amenità. I numeri si mescolano agli aneddoti. L’autore immagina di essere il Ministro dell’Istruzione e di avere in mente una sua riforma della scuola secondaria; il gioco si spinge sino alla stesura di un formale “articolato” in quattro punti. L’asse portante della riforma Cremaschi si può così riassumere: settimana corta (dal lunedì al venerdì), anno scolastico lungo (dal 1° settembre al 30 giugno). Uno spostamento delle quantità, a saldo finale immutato: 200 giorni di lezione per 1000 ore “medie” passate in classe dagli alunni; il tutto distribuito su 40 settimane anziché sulle attuali 33. Docenti a scuola per complessive 25 h (lo stesso tempo degli studenti), di cui 18 in classe, il resto a disposizione. Vantaggi sicuri: 1) tempi di apprendimento meno congestionati; 2) docenti utilizzabili per supplenze (nelle loro classi) e utilità didattiche varie; 3) snellimento del carico delle discipline a seguito soppressione del sabato a scuola (“studiare meno, studiare meglio”); 4) fine della maldicenza: “lavorano solo 18 h”; 5) fine delle epiche contese per il “giorno libero”. Svantaggio certo: perdita del 17% dei posti di lavoro (82000 esuberi), causa eliminazione delle 5 h del sabato; danno convertibile in immediato beneficio: i 5 miliardi risparmiati tornano nel sistema come aumento degli stipendi dei docenti (con altri “aggiustamenti” si va vicini al raddoppio). Come si vede, una scuola rigirata come un calzino. A parte il “dettaglio” esuberi, funzionerebbe la cura Cremaschi? Forse. A patto di ricordarsi che accanto ai numeri esistono i “santi andazzi”. Ottimizzare lo schema senza introdurre regole chiare sul “vissuto quotidiano”, servirebbe a poco. Inutile razionalizzare il contenitore se poi ognuno ci continua a mettere quello che vuole. Un solo esempio (potrei farne 101): estemporanei pullman davanti ai muri di un Liceo, scolaresche in ansimante imbarco; attesissima conferenza, illustre ospite, evento unico, opportunità imperdibile. Carlo Rubbia? No. Vittorio Sgarbi.

                                                                                                             
                                                                                                                 Gigi Monello

sabato 8 giugno 2013

Il vuoto dentro i gavettoni (Giugno 2008, Reprise)


Ultimo giorno di Scuola. Succursale di un Liceo qualunque. Clima di vacua, selvatica festosità. Di passaggio, intravedi banchi uniti a formare buffet; patatine e coca cola.
La maggior parte dei docenti simpatizza: "So' ragazzi!".
Certo, qualche sfigato deve ancora "dare l'interrogazione"; ma, nel caso, per queste "cose" c'è sempre la sala professori. Insomma è l'ultimo giorno! Ma che pretendiamo ancora! Finiamola con il moralismo. Come disse una volta il massimo esponente della mezza dozzina di "rivoluzioni copernicane" fatte vivere alla scuola in un fatale quinquennio, "bisogna stare non davanti ma a fianco degli alunni".
La scuola è cambiata. Come tutto del resto. Oggi imparano in mille impensabili maniere. Sono i ragazzi del Web. Loro scaricano. Bizzarra metamorfosi di una parola: tanti anni fa, si associava al mestiere più distante possibile dal mondo degli studi; anzi, qualche grintoso prof vecchia maniera, arrivava pure a dire, "Ma vai a fare lo scaricatore!".
Secoli fa.

Ore 10: cominciano i primi lanci. Gavettoni, bombette, schizzi. La tribù elettronica, tutta internet, cellulari, ipod, celebra i Riti del Nulla. Hanno scannato pagnotte tutto l'anno. Fatto il viaggio di istruzione (patrimonio indisponibile dell'umanità). Guadagnato tra indicibili sofferenze un 5. Ora finalmente si rifanno.
Evviva il casino demente! Evviva il giocaccio! Lo fanno dappertutto. Perché noi nulla? A Roma uova e farina! Che vi frega di un po' d'acqua? Forza raga! Che stasera carichiamo tutto su Youtube e domani ci guardiamo!
Già, youtube; non c'avevamo fatto abbastanza caso: in fondo realizza il sogno universale di andare in televisione. Nulla è ormai impossibile con youtube.
Il docente con delega del Preside è chiuso in classe. Un collega lo informa. Risponde gelido: "non posso farci nulla". La maggioranza dei prof tollera che molti abbandonino l'aula per andare in cortile. La festa in onore del dio Nulla prende quota. Carnevale generale; tutti in visita da tutti. Solo qualche porta resta sinistramente chiusa. Zitti! sono i "quasi bocciati", quelli con le ultime interrogazioni!
Corrono allegre innaffiature. Abiti zuppi. Poco male: splende un caldo sole. Schiamazzi, rincorse, piccoli agguati. I maschi più fradici gonfiano il petto, hanno la camminata spavalda, ostentano come un trofeo l'esser più bagnati. Cercano gli sguardi delle compagne. Un'attempata ed energica prof sbotta, cerca di reagire, sequestra qualche bottiglia, sbraita, minaccia. Ma è sola, nessuno la segue: la festa continua. Per ore ripetono gli stessi gesti, fanno le stesse cose. Per ore, un liceo come un arenile. E per ore, in tremila altri Licei, staranno succedendo le stesse piccole scene. Tutte uguali. Tutte insulse. Viene in mente il "solido nulla".
Gli adulti non intervengono. Eclisse totale. Ci sono ma non si vedono.
Eppure è ancora un giorno di Scuola. Gli scrutini sono ancora da fare. Gli esami pure.
Dicono i savi che spesso gli adolescenti trasgrediscono anche per mettere "i grandi" alla prova; vedere i loro bluff; capire sino a che punto credono veramente nelle cose che dicono. Dicono i savi che in certi casi è meglio resistergli.

Li guardo ancora. Entreranno nel mondo con l'idea che qui oggi ricevono da noi: una facile festa, dove basta il minimo, i debiti non si pagano, gli esami si superano, il successo è garantito, la furbizia tollerata, la selvatichezza anche.
Mi torna in mente il suggerimento del massimo artefice di rivoluzioni cartacee; "a fianco, non davanti".
Suggerimento impagabile. Oggi vuol dire salvezza.

mercoledì 15 maggio 2013

Il materiale e l'immaginario


A metà Maggio, proprio quando si impazzisce dietro programmi da completare, verifiche da chiudere e tristissime carte da compilare, a perfezionare la magia del momento arriva nelle scuole il Somministratore Invalsi, l'eroe disperato della "misurazione oggettiva". Come pochissimi sanno, "Invalsi" significa, "Istituto Nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione". Che è un bel titolone. Voluto nel lontano 1999 dal ministro Berlinguer, ha vivacchiato anonimo per circa un decennio, per poi riprendersi con la Gelmini, che ce lo rifilò come uno dei segni epocali del suo passaggio. Ha un organico, tra stabili e "a progetto", di un centinaio di persone, una valanga di "giornalieri" (non male pagati), un commissario straordinario piazzato pure in Bankitalia, un'influente dirigente di area CL, e un gioiello di sede ai Castelli Romani (Villa Falconieri, Frascati). Ora, tralasciando l’ovvio (è democrazia, esporsi ai controlli) e il metafisico (il quiz valuterebbe “competenze”), la questione importante sembra un’altra: è veramente questa, oggi, la più indifferibile emergenza della scuola italiana? Ha veramente senso mettere in piedi un gigantesco apparato per rilevare un malanno arcinoto? Quanto costa la mastodontica investigazione? Forse, invece di gingillarsi con cose come l'Invalsi e fare accademia attorno al "sintomo", ministri e rifondatori potrebbero umilmente occuparsi di cose più “materiali”; a cominciare dalla cronica erosione del tempo della didattica ordinaria per opera di una fitta e variopinta batteria di “attività extra”, che da decenni restringe il lavoro d’aula; una compressione che, sommandosi alla crescente “volatilità di ascolto” delle generazioni digitali e al sovraffollamento, fa sì che portare a dignitosa chiusura un anno scolastico sia oramai divenuto pura lotta. Naturalmente gli adoratori del fatto presente, compatiranno queste lamentele; e diranno che sanno di gesso e lavagna, e che la lezione frontale “parlata” è agonizzante, e in cielo riluce l’aurora dell’Era Digitale. E chissà che non abbiano pure ragione. La storia, in fondo, è un continuo innovare. Del resto, dovessero andar male le cose anche con tablet e lim, resta sempre un nuovo “possibile”: trasferire tutto su Facebook. Invalsi compreso.

                                                                                                                     Gigi Monello

sabato 20 aprile 2013

Il pensiero dominante

È palpabile, materiale, si taglia a fette. Se per qualche ragione sostanziale (lo avete sposato) o accidentale (lo vedete al bar) vi capita di incontrarne uno, osservatelo e ascoltatelo bene: ha un messaggio doloroso da darvi. È un insegnante, anni 55 o su di lì, un solo desiderio furioso: svanire. Squagliarsela, venirne fuori, pensionarsi. Credo che mai, in passato, il disamore per la professione abbia raggiunto i picchi attuali. Se ripenso ai colleghi anziani dell’epoca in cui ho iniziato io, non riesco a trovare facce tanto incattivite, amareggiate, nauseate. Prima o poi qualcuno dovrà pur provare a raccontarla la vera storia della scuola italiana, del suo sfascio definitivo, e di chi ce la condusse; e dovrà pure essere un tizio con buone aspettative di vita, dato che ne avrà da studiare. Il ventaglio di concause grandi e piccole è distribuito sopra un diagramma tanto esteso nel tempo da far paura; e fattori interni ed esterni si sono talmente incrociati che ormai l’imbroglio è pressoché inestricabile. Il longevo storico spazierà dalle fatuità nuoviste di certa pedagogia “à la page” di età Berlingueriana (vaniloquiante di “fluidificazione dei contenuti e destrutturazione della didattica disciplinare) ai perversi effetti del crollo demografico metà anni ‘90 (quando premura per l’alunno e per la cattedra si “consustanziarono”); per toccare, poi, i tristi fasti della “scuola-progettificio” (in declino per esaurimento cassa) e gli insigni risultati della più riuscita opera di diseducazione di massa mai realizzata da sistema televisivo (pubblico e privato uniti nella lotta). Sul punto, un solo esempio: certe luccicanti, plastificate, scipitissime gare di ballo e canto in tv, i cosiddetti “Talent Reality Show” (fa molto “fino” dirlo in inglese); perle rare come “Amici” (mediaset) e “Ballando con le stelle” (rai), dove è cosa del tutto normale che il concorrente non accetti il giudizio dell’esperto e addirittura giunga a contestarlo; e dove (quando si dice il perfezionismo) i giudici stessi litigano platealmente fra di loro, difendendo ora questo ora quello. Con il bell’effetto di diffondere la comodissima idea che ci si possa anche valutare da soli; e che chi giudica o non sa o non vuole farlo bene. La De Filippi e la Carlucci? Statene certi, hanno pesato più loro, sulla scuola italiana, di tutte le “commissioni” Berlinguer, Moratti e Gelmini messe insieme.

                                                                                                                         Gigi Monello

mercoledì 27 marzo 2013

Guru, Grilli, Bufale & dintorni




Tanto corre di bocca in bocca che prima o poi un cantautore ci costruirà sopra un bel pezzo in stile Jannacci: “Ho visto un guru”. Portata dall’ondata orientalistica fine anni ’60, tra cannabis, rock e trascendentale da salotto, la parolina ha retto bene l’usura del tempo e oggi passa decisamente un buon momento. A seconda dei gusti, “guru” può significare “pesante” (nel senso di “degno”, “rilevante”) o “dissipatore dell’oscurita”, “faro”. In ogni caso è il “maestro”. Ma se l’origine è indiana, per decenni è stato l’opulento occidente la terra promessa dei santoni e delle mille svariate avventure tra business e gnosi. Nel caso pensaste di cercare un guru, tenete presenti i connotati-base: 1) aria vagamente schifata davanti ai discorsi rigorosamente logici, troppo al di sotto di una spiritualità che comunica senza “passaggi”; 2) posa oracolare-ispirata; 3) sorrisetto di sufficienza; 4) aristocratica insofferenza alla critica; 5) capello raccolto a codino (se possibile; ma va bene anche il lungo/scarmigliato). Va da sè che oltre al guru esiste anche il “gurismo”, forte passione originante dal basso e diretta a trovare il protettore magico che ci salvi dai mali del mondo. Celeberrimo caso di “gurismo” fu, da noi, 15 anni fa, la vicenda Di Bella, quando a furor di piazza si ottenne di sperimentare il metodo del professore modenese (persona, per altro, di indubbia moralità), che da tempo sosteneva di poter curare il cancro. La terapia fu bocciata, e, nonostante l’infinito seguito di polemiche, rimane intatta la sostanza dei fatti: 386 pazienti trattati, 3 miglioramenti, lo 0,8 %. Non è un caso, forse, che il Beppe nazionale nei suoi spettacoli (al momento sospesi) usi citare Di Bella come vittima del complotto mondiale di una misteriosa corporazione di oncologi; aggiungendo (tanto per gradire) che l’aids non esiste e i vaccini fanno male ai bambini. Qualche settimana prima delle elezioni, il guru a 5 stelle Casaleggio, eminenza grigia e tenebroso reggitore, incalzato da un cronista sul più classico dei temi, “dove trovate i soldi per…?”, dopo qualche snobistico fraseggio, accennando ad una pagina web, concludeva con tocco sublime, “magari ti mando un link”. Suggerimento imperdibile: ho visto un guru / l’ho visto, sì / se faccio il bravo / mi manda un link.

                                                                                                     Gigi Monello

giovedì 28 febbraio 2013

Divagazione quasi seria circa il fanfarone


Il fanfarone, altrimenti detto spaccone o smargiasso, è, in Italia, razza comunissima tanto nelle città quanto nelle contrade, sicché a nessuno è concesso di poter seriamente affermare di non averne mai incontrati.

A voler tentare un azzardatissimo “abbozzo dell’essenza”, potremmo dire che il nostro soggetto è un tale cui mai riuscì di elaborare il lutto di essersi, un giorno, scoperto “creatura”, cioè ente “a scadenza”, vale a dire “comune mortale”; e che, spaventato “a morte” dalla faccenda, “fanfaroneggia per dimenticare”. A buttarla giù semplice e chiara, è come “uno che fischi nel buio per darsi coraggio”. L’apparenza spavalda lenisce l’impervia sostanza.

Ovviamente, aldilà di una certa morfologia morale di fondo, il fanfarone italico non è sempre e dappertutto lo stesso; e ne esistono varianti, sottospecie e sottogruppi, soprattutto in rapporto a: 1) livello di energia psico-nervosa; 2) gusto per l’avventura; 3) grado di pericolosità sociale.

Solitamente innocuo (ancorché assai molesto) sinché attivo nel limitato raggio del suo quartiere (bar, market, ufficio postale, edicola, sportello bancario, farmacia), sul posto di lavoro (ufficio, officina, ospedale, scuola, mercato, tribunale), o in vacanza (spiaggia, ristorante, gelateria, terrazza a mare, discoteca, piazzetta, panchina, pizzeria), il fanfarone diviene gravemente nocivo quando beffardi e fortunosi accidenti della storia ne sollevano uno di speciale energia a ruoli pubblici (leader politico, predicatore religioso, alfiere di palingenesi, tribuno della plebe, vindice degli afflitti, liberatore degli oppressi, svincolatore dei laboriosi, difensore dei depressi, etct., etct.).
Capita allora il peggio che ci si possa immaginare, e cioè che il Cavalier Palloni felicemente incroci le ansie sub-consce della massa degli uomini medi (i più vulnerabili al bacillus fanfaronitis) che, sedotti da ambizione attivistica, sicurezza sbruffonesca, spietata volontà di grandezza, sublime faccia tosta e, buon ultimo, ineguagliabile talento nello spararle grosse, si inebriano dell’avventura, e - non senza intravedere qualche terrena convenienza - investono emotivamente sul vano-borioso, identificandovisi e mandandolo avanti ad osare (salvo disinvoltamente appenderlo per i piedi, una volta caduto in disgrazia).

È in questi casi (cioè quando il micidiale cortocircuito smargiasso-massa/credente si chiude) che possono venire danni seri e per tempi lunghi, andanti dalle annualità ai ventenni, passando per i decenni. Per meglio disegnarne il profilo e dare modo di riconoscerlo ictu oculi tra la folla, aggiungeremo che Monsieur Fanfaronì si picca di saper raccontare meglio di tutti le barzellette, è provetto trovatore di aneddoti, battutista incontenibile, abile storpiatore di nomi, spirito enciclopedico, tuttologo diplomato, nonché - dulcis in fundo - insuperabile inventore di formule di fumosità tale da poter piacere agli arrabbiati di ogni risma.
In genere egli possiede: discreta intelligenza, ottima memoria, cultura media, disinvoltura espressiva, pronto sorriso di bocca, cospicua spudoratezza, fiuto animalesco per l’onda cavalcabile. Risulta inoltre: 1) grosso amatore di donne (sino ad otto di fila); 2) grande tifoso; 3) convinto salutista; 4) nuotatore (sino a tre chilometri continuativi); 5) uomo di buon appetito; 6) fisico di ferro. Tutte cose che lo fanno essere “eterno giovane” e incapace anche solo di immaginare il fatale disfarsi della sua carcassa (che tende talora a fasciare dentro severe uniformi o “doppiopetti” caraceni; e coprire - sempre non disponga di superstite, candida chioma ribelle - con cappelli e “scenose” bandane).

Esaurita la fenomenologia, e passando all’eziologia, ecco venirci incontro l’interrogativo più oscuro, sfuggente, imperscrutabile: e cioè perché mai lo smargiasso tiri, il gradasso prenda, il fanfarone acchiappi, lo sbruffone magnetizzi; e, soprattutto, perché tutto ciò riesca anche con coloro che, a guardar bene, potrebbero pure materialmente rimetterci. Quale, in sostanza, la tenebrosa origine della fanfaronite? Domanda da far tremare vene e polsi al più scafato investigatore di umani garbugli. Ma volendo osare e ancor “tentar l’essenza”, potremmo spingerci sino a dire che la mente del qualunquista sedotto (fanfaronite affectus) non è, poi, così diversa da quella del video pokerista incallito (fauna umana sempre più spesso osservabile nei patri bar e tabacchini), il quale, di fronte alla macchinetta svuota-tasche brillante e musikettante, gode della dissolutezza, sente il brivido ambiguo dell’imprevisto, del colpo di fortuna, della scorciatoia avventurosa, dei “soldi tanti” senza lavoro. E dimentica grigiori, mediocrità, bollette, passar del tempo: piomba nello sballo.

Naturalmente, ridottosi con le pezze al sedere, le scarpe rotte, gli usurai alle calcagna, i denti cariati e le minestre alla Charitas; presi, cioè, sonori e robusti ceffoni in piena faccia, l’intossicato prima o poi rinviene e realizza la fregatura. E qui cade, drammatica e attualissima, la domanda: di quanti ceffoni c’è bisogno, in Italia, per realizzare la fregatura? Tre basteranno?

postScriptum: none

                                                                                                                    Gigi Monello



mercoledì 20 febbraio 2013

sbrofolòn, spocchiòn, sbuffòn


Non ci si sarà mai dispiaciuti abbastanza dell’impoverimento di lessico nelle nuove generazioni. Perché è attraverso il linguaggio che pensiamo le cose, cerchiamo un ordine, proviamo a dare coerenza al nostro io. Siamo, in fondo, le parole che pensiamo, diciamo, bisbigliamo a noi stessi, ricordiamo, dimentichiamo; e più parole possediamo, e più ricche di sfumature, tanto meglio conosceremo il mondo e le sue mille vischiose trappole. Una parola il cui uso tende sciaguratamente a perdersi, è "sbruffone". Ed è un vero peccato, poiché è bella e schietta voce della nostra bellissima lingua; di una potenza sonora che la eleva a “vocabolo ad alta intensità pedagogica”. Oggi non si fa più caso a quanto lo stesso suono di una parola possa contribuire a modellare un carattere. "Sbruffone" deriva dall’antico "sbruffare" (forse dal lombardo “sbrofà”) che letteralmente significa “spruzzare violentemente liquidi dalla bocca o dalle narici”. Nata dal solido mondo delle agresti faccende e da comuni accidenti di taverna, chissà quando e chissà come un benefattore del genere umano la traghettò al senso figurato, dimodoché la parola prese anche a significare “spruzzare, sbruffare, vantare, millantare senza ritegno qualità, capacità, virtù inesistenti; nonché aspergere rumorosa notizia di risultati ignoti ai più”. Nei cari, sciupati vocabolari cartacei si trova registrato anche “sbruffo” che, con deliziosa variazione, può avere valore di “lesta dazione di denaro a scopo corruttivo”. Incredibili chiaroveggenze della grammatica. Ma a ben frugarci dentro, la parola rivela altre impreviste profondità e segreti passaggi che conducono dove mai vi aspettereste. Nel monumentale Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia troverete, ad esempio, che “sbruffo” è strutturalmente parente di “sbuffo” (Batt., XVII, 719), a sua volta discendente da “buffo” (soffio d’aria), da cui proviene il notissimo e ancora attualissimo “buffone”, cioè “persona che, gonfiate le gote e imbottiti petto e pancia, emette, sbuffa, spruzza a ciclo continuo, con clamore e sfrontatezza gioconda, chiacchiere, ciance vane, ridicole, pretenziose, nonché, talora, promesse immantenibili”. Che gran bella rivoluzione sarebbe, riuscire a convincere i giovani che il più sicuro antidoto contro gli imbroglioni è la grammatica.

                                                                                                              gigi monello



 


giovedì 31 gennaio 2013

lapis obsiana




Il tempo


Immaginate il silenzio abissale di una notte dei tempi dell’Ossidiana, ottomila anni fa, in Sardegna, sotto un cielo nero pece, nitidissimo e scintillante, e col soffio improvviso del vento tra anfratti e cespugli. Che doveva apparire il mondo, all’uomo, in quelle notti?
Esercizi scivolosi dell’immaginazione, astrusi, incontrollabili. Troppa distanza, troppo precipite, insondabile vuoto. Eppure resta il segreto desiderio di provare, di ritrovare il passato.
Limpidissimi e stellatissimi i cieli dell’antichità, vicini, animati, incombenti: chi potrà più riaverne l’immagine? Dicono che, a quei tempi, anche solo salire una modesta collina accorciasse la distanza dal cielo; e che, nell’idea che se ne erano fatta, non fosse neppure impossibile, per alcuni popoli, addirittura salirvi nel cielo, costruendo una scala sulle più alte montagne. Luoghi ierofanici, le montagne; e tetto il cielo. Tetto vero, non metafora poetica, immensa impalcatura insieme vicina e misteriosa, presente e piena di dei: chi potrà più riprovare quella paura? Nessuno, forse. Forse accade anche qui ciò che i fisici ci dicono accada in quei loro intimissimi fenomeni della micromateria, dove il solo osservare è già un cambiare. Forse, inavvertitamente, carichiamo il passato di una incalcolabile particella delle nostre consapevolezze; e i nostri pensieri, per quanto studiosamente depurati -o, forse, proprio per questo- cambiano invisibilmente quelli che vorremmo abbiano avuto gli alieni abitatori di quel tempo.
Persi per sempre. Non più raggiungibili.

Un giorno, un uomo senza volto, sorpreso dalla notte a Trebina Lada, affacciatosi a quel severo spalto basaltico, avrà volto in giro lo sguardo per quella fissità spettrale, provando quel primitivo sbigottimento per l’esserci stesso del mondo. E totale gli sarà parsa la separatezza tra “vivo” e “non vivo”, la serpe e il ruscello, la roccia e la pianta, pezzi di un mondo dove tutto è, però, da sempre, contemporaneo.
Incommensurabilità dei nostri sguardi: abbiamo rotto l’unione incantata degli esseri, dissolta la contemporaneità, costruite esatte scale graduate del Tempo, rivoltate le viscere del pianeta, toccate le croste di altri lontani mondi non nostri, sfondato il cielo, fatti infiniti i mondi. Noi sappiamo. Sappiamo che quelle montagne hanno vegliato per durate interminabili un mondo vuoto; che dalla loro materia oscura e inerte è venuta, con empia, dissacrante congiunzione, la vita; che l’Ossidiana è lava, violenta materia di fuoco venuta da sotto.
Non così quella notte a Trebina Lada.

Si dice che la durezza ancestrale del profilo del paesaggio abbia dato un’impronta di scabra sobrietà all’animo dei Sardi, radicandone la mentalità nell’aspro reale succedersi delle opere e dei giorni. Ma perché non pensarlo, questo, un evento più tardo?
L’uomo di quella notte, sulla montagna, raccolse un nero sasso di Ossidiana, guardò l’oscuro tetto, e con smarrita dolcezza vi vide un pezzo di cielo caduto.


la cosa

Dura e fragile allo stesso tempo: due doti opposte nella stessa cosa. Un mistero inspiegabile per il senso comune. Il fatto è che non distinguiamo durezza da resistenza all’urto e alla deformazione; e, di qui, l’equivoco. Materia strana del mondo l’Ossidiana, insieme dura e fendibile. A guardarla, sprigiona da quella densa nerezza compatta, lucentezze vitree di arcana nobiltà; ma tutto sinché non le si applica una forza: allora, spintala nel gioco brutale delle umane utilità, diventa docilissima alla mano dell’uomo, dominabile. Colpita nel modo giusto si scheggia con facilità secondo linee di frattura tipicamente concoidi, talora esfoliandosi a mo' di cipolla; ne viene una ricca gamma di manufatti dai margini duri e taglienti.
Fragile e dura: fu questo a farla grande e preziosa. “Oro nero”, “acciaio”, “energia atomica” della preistoria, queste le risonanti iperboli degli storici. Per millenni, in tutto il mediterraneo, fu estratta, cercata, venduta, comprata: da Milo a Lipari, Pantelleria, le Baleari, la Sardegna. Qui, la sua presenza a Monte Arci, a pochi chilometri dal mare, si dice sia stata la causa d’attrazione più probabile di stabili genti neolitiche nell’isola. È una nera pece vetrosa senza cristalli, vomitata dall’antico vulcano nell’Oligocene, e subito raffreddatasi sui suoi fianchi. Per tempi infiniti rimase infissa nelle costole trachitiche della montagna, o sciolta in ciottoli nelle sue gole, immobile, ignorata. Poi, un giorno, pensando con odio un nemico, un uomo la guardò.


la parola

A tutta prima ti fa pensare ad “Ossido”, Ossidiana; all’origine chimica della sostanza, a “ossigeno”. Non ci vuol molto a capire di essere del tutto fuori strada.
La parola, d’altronde, ha una sua acustica seduzione che può irretire nel gioco delle ipotesi immaginose. Quando, infine, si mette mano alle carte, l’imbroglio è totale: non nome comune di cosa generale, ma nome proprio, di individuo umano, particolare, definito e insieme nebuloso.
Narra Plinio in un passo delle sue sterminate “Storie Naturali”, che fu un certo “Obsius” a scoprire per primo la negrissima pietra in Etiopia, da cui la denominazione antica di “lapis obsiana”. Una successiva, erronea lettura dei codici pliniani, mutò “Obsiana” in “Obsidiana”. Lo scivolone di un erudito dallo sguardo offuscato dal sonno. O, forse, una crisi improvvisa di narcisismo, di volontà di potenza, la voglia beffarda di metterci del suo, la convinzione che suonasse meglio “Obsidiana”.


                                                                                                        Gigi Monello