venerdì 4 ottobre 2019

LE SETTE VITE DELLA BUONA SCUOLA (2)


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A dispetto della “discontinuità” dichiarata dal nuovo esecutivo, sulla scuola sembra si voglia procedere col pilota automatico, portando a compimento un disegno di riforma di lunga incubazione, che il governo Renzi ha avuto il merito di rendere complessivamente riconoscibile nella sua coerenza. La pubblicistica recente in tema di istruzione riporta all’attualità temi e contenuti  tipici della”cultura della Buona Scuola”, vagamente riverniciati, con l’intento sottile (almeno per chi non lo sappia intendere) di convincere in merito al carattere progressista delle spinte riformatrici, contraddicendo i più elementari principi di realtà. Leggiamo dunque della necessità di attuare nuove “metodologie didattiche delle non cognitive skills“, di superare “una visione solo cognitiva dell’apprendimento“, dell’esigenza di una “didattica innovativa” che “contrasti la disaffezione nei confronti della scuola” e combatta la “povertà educativa“.  Si tratta di strategie retoriche, persuasive e comunicative ampiamente riconoscibili,  usuali da parte di una certa sinistra “neoliberista”, decisa a mostrare come interventi regressivi, per esempio il Jobs Act, siano di effettivamente di sinistra.  Ma per scardinare definitivamente ciò che resta della scuola democratica,  della sua organizzazione, delle sue finalità formative e delle sue fondamenta politico-civili, ecco che è necessario  superare definitivamente la resistenza degli insegnanti: quanto meno di quelli che il Miur definiva  in un rapporto del 2017 “professionisti di vecchia data ancora convinti che il titolo di studio non solo serva, ma sia un valore”. 
Nuovo esecutivo, nuova politica: nel segno della discontinuità. Questo lo slogan con cui, dall’inizio della crisi estiva ad oggi, il nuovo governo chiede legittimazione di fronte all’opinione pubblica.
Le intenzioni in tema di politica scolastica non hanno tardato ad arrivare: è parso quanto mai singolare ascoltare, tra i punti toccati nelle dichiarazioni del presidente del Consiglio Conte, insieme agli ormai consueti temi della carenza di finanziamenti, riorganizzazione del reclutamento e superamento del precariato, anche la necessità di intervenire sulla didattica degli insegnanti.
Le nostre scuole devono diventare dei luoghi di apprendimento dove il come imparare è più importante del cosa imparare [..]”, ha affermato il presidente del Consiglio uscente Conte al Senato il 20 agosto.
Per la scuola occorre migliorare la didattica [..]” ha ribadito il presidente del Consiglio ri-entrante Conte, il 9 settembre.
Lo stesso neoministro Fioramonti, nel suo primo incontro con i Sindacati, il 17 Settembre, ha ripreso l’argomento: “per innovare e per fare una didattica innovativa, oggi la Scuola non ha a disposizione risorse sufficienti”.
Che il concetto di “discontinuità” lo si valuti rispetto al ministero Giannini-Fedeli o rispetto a quello Bussetti, poco cambia: sulla scuola sembra si voglia procedere col pilota automatico, portando a compimento un disegno di riforma di lunga incubazione, che la Buona Scuola ha avuto il merito di rendere complessivamente riconoscibile nella sua coerenza. In sintesi: scardinare definitivamente ciò che resta della scuola democratica,  della sua organizzazione, delle sue finalità formative e delle sue fondamenta politico-civili, per dare ancora più spazio ad un’idea di scuola al servizio della riproduzione sociale e culturaleEcco che per far questo è necessario  superare definitivamente la resistenza degli insegnanti: quanto meno di quelli che il Miur definiva  in un rapporto del 2017 “professionisti di vecchia data ancora convinti che il titolo di studio non solo serva, ma sia un valore”.
Che gli esecutivi Conte – sia il primo, che il secondo – si accingessero a segnare un’inversione di tendenza è parso immediatamente poco credibile; a ben vedere la volontà politica è sembrata (e sembra ancora) essere quella di attuare interventi di piccola bottega, “pacchetti di Buona Scuola” disorganici e solo all’apparenza difformi dall’impianto originario, camuffati ma non meno regressivi. Si pensi alla riforma dell’Esame di Stato o alla legge sull’Educazione Civica che ha ricevuto parere negativo dal Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. Entrambi i provvedimenti, dal punto di vista delle finalità culturali e formative, sono perfettamente coerenti con l’impianto della riforma Renzi: l’interdisciplinarietà coatta del colloquio del nuovo esame e l’estromissione della storia, le certificazioni di competenze degli studenti a firma INVALSI – con il progressivo smantellamento del valore delle credenziali educative pubbliche – il guazzabuglio dell’educazione civica-digitale-ambientale-alla legalità-alla sicurezza, rigorosamente senza oneri per lo Stato; ancora: l’enfasi sul raccordo scuola e territorio, il perenne richiamo ad un’impostazione didattica fondata sul dominio delle competenze, punto centrale di un’idea di scuola che vede entusiasticamente concordi Fondazione Agnelli, INVALSI, Associazione Nazionale Presidi.
Che sia in atto un tentativo decisivo di imporre in via definitiva la “cultura della Buona Scuola” traspare da tutta una pubblicistica recente, che ne riporta all’attualità temi e contenuti tra i più retrivi, con l’intento sottile (almeno per chi non lo sappia intendere) di convincere in merito al carattere progressista delle spinte riformatrici, contraddicendo i più elementari principi di realtà. Una strategia usuale da parte di una certa sinistra “neoliberista”, decisa a mostrare come interventi regressivi, p.es. il Jobs Act, siano di effettivamente di sinistra. Vediamo alcuni dei documenti a cui facciamo riferimento.


L’idea di Scuola che mette d’accordo tutti: l’Intergruppo della sussidiarietà

Il più significativo –in particolare per l’autorevolezza e la risonanza del luogo di pubblicazione- è un appello apparso sul “Corriere della Sera” il 14 agosto 2019. In realtà si tratta di un documento che si concepisce in perfetta continuità con un altro scritto, pubblicato un anno prima, dal titolo “Un nuovo patto (senza muri) sul bene comune”.
Come spesso accade, anche quando si è in presenza di contenuti argomentativi di debole spessore intellettuale, un’analisi  del testo risulta in grado di smontarne l’artificiosità teorica e la prosa astrusa e fumosa, smascherandone l’intenzione ideologica.  L’appello dell’agosto scorso ha la finalità dichiarata di stravolgere  l’organizzazione scolastica, incentrando il lavoro didattico non più sui contenuti di cultura rappresentati dai diversi saperi disciplinari, bensì sull’«introduzione della metodologia didattica delle non cognitive skills (amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale)» e sul «superamento di una visione solo cognitiva dell’apprendimento e facendo leva sull’educazione della personalità e della consapevolezza dei ragazzi» per «contrastare la loro disaffezione verso la scuola e migliorare la qualità del sistema scolastico».
A ben vedere, l’argomento è sovrapponibile perfettamente alla sintesi fatta in Senato dal Presidente Conte: le nostre scuole devono diventare dei luoghi di apprendimento dove il come imparare è più importante del cosa imparare.
E’ interessante notare come questi temi,  che riprendono rozze argomentazioni ritrovate nei diversi documenti ministeriali pubblicati a partire dall’approvazione della Legge 107, siano nel caso in questione incorniciate da un cenno introduttivo e da una conclusione che nulla c’entrano con la scuola, ma che hanno lo scopo di far apparire in un’aura falsamente progressista la reale proposta che ne è il fondamento: quella di smantellare l’autonomia della cultura e subordinarla alla logica e alla cultura d’impresa.
La parte iniziale accenna alla necessità di un cambiamento dovuto al nuovo scenario internazionale, che obbliga il Paese a modificazioni profonde, quasi sempre coincidenti con le decisioni riformatrici in tema di organizzazione del lavoro, in linea con la svolta economica neo liberista. In chiusura, invece, viene esaltata la dimensione comunitaria della personalità e della cittadinanza, di contro a una diffusione sempre più massiccia dell’individualismo, come se questo non fosse il frutto proprio delle recenti scelte politico-economiche. Scelte ben concretizzate, nel caso della scuola, negli imperativi «crescere, competere, correre», alla base di tutto l’impianto culturale della Buona Scuola[1].

Non mancano poi i riferimenti al Sud, alla sussidiarietà, il riferimento ai giovani, alla dispersione scolastica e alla «povertà educativa» cui sarebbero soggetti. L’intenzione è chiara: addossare (in modo insensato) sulla scuola la responsabilità dell’intera crisi economica ed occupazionale, oramai strutturale, oltre che frutto di precise scelte di politica economica, che in questi anni hanno coinvolto l’intera Unione Europea. Nella parte conclusiva dell’appello, con un salto logico rispetto a quanto appena esposto, si fa riferimento alla sostenibilità, alla sfida ambientale, citando persino papa Francesco, senza che ci sia alcuna relazione coerente con quanto scritto sopra; nel perfetto stile retorico riformista che oggi va per la maggiore, pur totalmente decontestualizzato.
Tuttavia, oltre i contenuti, ciò che più inquieta sono i nomi dei firmatari. Non tanto quelli di Maurizio Lupi, Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini, fino a Graziano Delrio, Luigi Marattin  e Simona Malpezzi; quanto quelli  di Roberto Speranza di Liberi e Uguali, di Gabriele Toccafondi del gruppo misto e  di Paolo Lattanzio del Movimento 5 Stelle.
Si sigla, di fatto, un’alleanza contro la scuola democratica e gli insegnanti che non lascia intravedere possibili alternative di rappresentanza politica, se gli stessi docenti non riusciranno a mobilitarsi, rifiutando quella che si configurerebbe come una  definitiva espropriazione di fatto delle loro prerogative professionali; per di più da parte di esponenti che, nella quasi totalità, non sarebbero in grado di affrontare alcun dibattito serio sulla scuola.

I 10 falsi luoghi comuni della scuola dell’Intergruppo

Richiamando quell’appello il documento sul bene comune di più ampio respiro apparso nel 2018, presentato come manifesto dell’innovazione, e ora addirittura testimonianza della discontinuità, vorremmo elencare brevemente 10 falsi luoghi comuni in esso presenti, spacciati per evidenze scientifiche, per ciascuno dei quali sono state da noi ampiamente espresse diverse argomentazioni in merito:
  1. la falsa contrapposizione tra una concezione della didattica specialistica e settaria (quella della discipline) cui si contrapporrebbe l’approccio «olistico» dei riformatori. Il documento inizia significativamente con la frase “nessun uomo (e nessun Paese) è un’isola”, proponendo una comparazione tra due dimensioni incommensurabili, ovvero le dinamiche psico-cognitive e le relazioni internazionali tra Stati;
  2. la priorità data in tema di istruzione alle problematiche economiche, facendo della scuola la principale responsabile della crisi della stessa economia, ribaltando evidentemente una relazione di causa e di effetto;
  3. l’idea che la crisi economica sia dovuta non a fattori strutturali, a scelte politiche dovute ai governi o alle istituzioni sovranazionali, bensì alla mancanza del nostro paese di “capacità imprenditoriale”. Se ne deduce che l’imprenditorialità diventa essa stessa un carattere antropologico che va adeguatamente formato in ciascuno attraverso il processo educativo, da configurare come costruzione di una soggettività ideologicamente orientata, unica responsabile dei propri successi o fallimenti.
  4. un poco credibile e contraddittorio riferimento all’ “io iper-individualista” che si vorrebbe combattere, laddove invece è proprio la dimensione dell’imprenditorialità a configurarsi come concorrenza di tutti contro tutti. L’appello alle appartenenze comunitarie non fa affatto riferimento a quelle solidaristiche previste dalla Costituzione, ma alla logica di gruppo e della lobby tipiche dell’impresa, dove la direzione del lavoro è etero-diretta. La contraddizione sta poi nel fatto che lo stesso “io” viene definito, in una concezione palesemente volontaristica, come soggetto protagonista che ha “voglia di combattere” e che in questo modo “ricostruisce i corpi intermedi”, con ciò forse auspicando il superamento di quell’ impostazione corporativa (in realtà per noi solidaristica) che li avrebbe caratterizzati storicamente, per imporre la prevalenza delle specifiche individualità. Ovviamente, per raggiungere questo traguardo, “serve un altro io, diverso da quello contemporaneo”: c’è qui una volontà di riconfigurazione antropologica che, a nostro parere, si manifesta come intrinsecamente totalitaria, in quanto al di là di ogni finalità del processo di istruzione in una società democratica; una volontà che intende totalmente conformare l’individuo all’ordine socio-economico vigente, senza che abbia gli strumenti per metterlo in discussione.
  5. l’affermazione di voler adottare un metodo della collaborazione e della condivisione per quanto riguarda le decisioni, mentre invece la riforma scolastica è avvenuta esautorando proprio gli insegnanti da ogni processo decisionale, in nome di una retorica pseudo-scientista che, a partire da presunte assunzioni di ordine psico-cognitivo, pretende che i docenti “destrutturino le proprie sinapsi”, diventando operatori docili di istruzioni decise da altri. Mai come in questi anni i fautori delle riforme hanno agito nella assoluta indifferenza di qualsiasi tesi contraria;
  6. la centralità delle imprese nella società contemporanea e quindi il loro diritto a condizionare in modo decisivo il processo didattico-formativo, in tutti gli ambiti in cui questo si svolge (di programmazione, di decisione di metodi e contenuti e di valutazione);
  7. l’uso retorico, come elemento oggettivo probante, dei risultati delle prove INVALSI, le cui criticità sono state più volte oggetto di analisi di questo blog;
  8. l’affermazione, priva di ogni inferenza ragionevole a supporto, che l’interazione educativa obblighi a considerare sullo stesso piano istituti pubblici e privati;
  9. demagogico risulta anche l’accenno a una condizione giovanile di alienazione (ludopatie, ecc.). Non ci si interroga da quando, infatti, tale fenomeno ha iniziato a manifestare un’ampiezza così preoccupante; né sulla sua relazione con una mentalità orientata al consumo la cui ideologia di fondo è proprio quella sposata dal documento; né sulla relazione con un’iper inflazione, di tendenza anche questa per lo più consumistica, delle nuove tecnologie. In particolare gli smartphone il cui uso si vorrebbe invasivo persino a scuola;
  10. in ultimo, l’accenno al “regionalismo differenziato”, come indispensabile per “superare il fallimentare centralismo” e finalmente innovare. Viste le dinamiche che hanno portato alla formazione del nuovo esecutivo, non è un caso che questo accenno sia sparito dall’appello pubblicato sul Corriere della Sera. Non per questo si tratta di uno scampato pericolo; nell’ambito dell’istruzione, la regionalizzazione avrebbe permesso infatti di creare le modalità organizzative più adatte per imporre la logica e la didattica autoritarie previste dalla Buona Scuola.

Fuoco amico? 

Si potrebbe probabilmente non esagerare l’importanza di tale gruppo per la sussidiarietà, anche se la convergenza politica risulta inquietante: quasi una sorta di patto, di modo che nessuno possa poi pensare di attrarre il bacino elettorale rappresentato dagli insegnanti.
Ma insieme al documento dell’Intergruppo sono apparsi altri interventi sulla scuola, particolarmente significativi nell’attuale fase politica. Si tratta di documenti volti a convincere un’opinione pubblica di sinistra del carattere progressista di azioni riformatrici le cui fondamenta ideologiche, di stampo neoliberista, riteniamo appaiano invece evidenti. Se in fondo risulta di poco spessore l’intervento sul portale di Micromega di Mila Spicola – storica esponente del PD impegnata con l’allora sottosegretario all’istruzione Davide Faraone a imporre il progetto della Buona Scuola-, poiché la pretesa di far coincidere la scuola delle competenze e dell’alternanza scuola lavoro con lo spirito del pensiero gramsciano non ha fondamento teorico, testuale e intellettuale,  più preoccupanti risultano invece le posizioni espresse dagli esponenti sindacali Andrea Ranieri e Francesco Sinopoli, FLC-CGIL, pubblicate su Il Manifesto del 4 settembre scorso.
Nel titolo si parla incredibilmente di «discontinuità» nella politica scolastica, facendola però coincidere con il modello di scuola da anni difeso, sostenuto, e parzialmente realizzato, proprio dalla Fondazione Agnelli o dall’Associazione Nazionale Presidi. L’abbandono di una scuola orientata alla valorizzazione umanistica della cultura, la didattica innovativa vengono presentate come  azioni di sinistra e di contrasto alle disuguaglianze: «E’ giunta l’ora di dirsi con chiarezza che un’istruzione che fa della frammentazione disciplinare la ragione fondamentale della trasmissione del sapere e della sua stessa organizzazione interna amplifica le disuguaglianze fra chi a casa ha qualcuno in grado di aiutare i ragazzi a comporre un sapere frammentario e chi la frammentazione la subisce»; ancora: la necessità di «una didattica  nuova, che rompa a tutti i livelli con l’individualismo docente”. Queste affermazioni non possiedono alcuna logica o fondamento scientifico, ma appaiono finalizzate a orientare l’azione del governo, quasi a fornire in anticipo uno “scudo ideologico” rispetto a qualsiasi opposizione. Non un cenno alla deriva misuratoria e valutativa che ha investito la scuola in questi ultimi anni, alla gerarchizzazione interna e allo svuotamento di senso degli organi collegiali – che hanno annientato proprio quella cooperazione tanto declamata; non una parola sulla pervasività omologante dei dispositivi di certificazione/ valutazione INVALSI, che addirittura si pretenderebbe di arricchire con incredibili misurazioni di soft skills. Un primo, vero segnale di discontinuità, a nostro parere, avrebbe potuto essere rappresentato proprio da una sterzata sul tema della valutazione (e certificazione) degli apprendimenti, tramite una messa in discussione di tutta l’impalcatura del Sistema Nazionale di Valutazione (vedi ricorso contro DPR 80/2013 portato avanti proprio dalla FLC in passato), in cui ruolo dominante è svolto dall’istituto INVALSI.
Senza alcuna problematizzazione della complessità dell’attuale situazione della nostra scuola – un’istituzione in perenne stato di ristrutturazione e di riforma – senza alcun bilancio o valutazione seri, onesti e rigorosi degli interventi frammentati e velleitariamente previsti a costo zero da oltre 20 anni, si punta unanimemente il dito contro gli insegnanti. Sono loro, le loro lezioni, i loro giudizi soggettivi e la loro formazione vetusta,  la causa di disuguaglianze, abbandoni, dispersione e povertà educativa. Eppure, appare ormai lampante quanto le spinte riformatrici siano  perfettamente in linea con le richieste del nuovo professionismo e della cultura d’impresa di oggi.
“Il capitale umano 4.0”, come lo definiscono gli estensori del manifesto della sussidiarietà, non ama profili solidamente definiti culturalmente; al contrario, soggettività improntate alla massima disponibilità a farsi integrare nell’organizzazione lavorativa. Largo alla scuola delle soft skills.

Giovanni Carosotti e Rossella Latempa
- DA ROARS, 1 Ottobre 2019






sabato 21 settembre 2019

LE SETTE VITE DELLA BUONA SCUOLA. UN INTERVENTO DI GIOVANNI CAROSOTTI



Gent.le Gigi Monello, 
devo scusarmi: come ti avevo già detto, ho intenzione di recensire il tuo testo la "Fuffoscuola". Lasciami ancora un attimo di tempo, perché l'inizio dell'Anno Scolastico e le incombenze sono tremende. Compresa l'esigenza di rispondere all'iniziativa non solo politica, ma anche mediatica, che mi sembra si sia avviata dalla crisi di governo a oggi. Ti propongo in proposito qualche mia considerazione. 

Mi sembra che in coincidenza con la crisi di governo sia iniziata una strategia d’attacco contro la scuola, finalizzata a legittimare una politica destinata a portare a sostanziale compimento la Buona Scuola. Temiamo in questo senso un’accelerazione dei processi di sconvolgimento delle metodologie didattiche. Il presidente del Consiglio, nel suo discorso alle Camere, ha proprio fatto riferimento a una scuola in cui «come imparare» deve essere più importante del «che cosa imparare». Contemporaneamente, il 14 agosto, è apparso l’Appello sul Corriere della Sera favorevole a una scuola che superi l’organizzazione disciplinare a favore delle non cognitive skills. Il fatto è che quell’Appello è stato firmato da tutto l’arco politico: non solo da esponenti di PD e FI, ma anche da Roberto Speranza e da un esponente del M5S, coprendo di fatto tutto l’arco parlamentare... Sul quotidiano Il Manifesto, poi, il 4 settembre, due esponenti di spicco della FLC-CGIL (Raineri e Sinopoli) hanno parlato di «discontinuità» nella politica scolastica ritenendo necessario un superamento della strutturazione per discipline, che rappresenterebbe una relazione formativa di tipo classista poiché, in base al loro astruso ragionamento, le famiglie con una minore preparazione culturale non sarebbero in grado di riunificare nella mente dell’allievo il sapere disperso ricevuto a scuola. In ultimo sul portale Micromega (dove finora gli interventi sulla scuola erano stati chiaramente improntati a una radicale opposizione alla Legge 107 e ai suoi presupposti metodologici e ideologici), è stato ospitato un lungo intervento di Mila Spicola (la vecchia collaboratrice di Davide Faraone per la politica scolastica del governo Renzi), che ha difeso il sistema delle competenze citando niente meno Gramsci, anche in questo caso sulla base di un’improbabile inferenza secondo la quale la teorizzazione del rapporto teoria prassi coinciderebbe, in campo educativo, con la logica delle competenze. Mi sembra cioè sia in atto un’offensiva –in particolare sugli organi di sinistra- per preparare quella parte di opinione pubblica appartenente a quell’area politica, poco informata però sulle problematiche reali che riguardano la scuola e l’istruzione, ad accettare una politica sostanzialmente in linea con la Legge 107, fornendone in qualche modo in anticipo una giustificazione ideologica.

Questo è il motivo per cui, in questa fase storica, noi docenti ci sentiamo in difficoltà; poiché avvertiamo la efficacia possibile di tale strategia. Io vorrei organizzare uno o più incontri presso la Casa della Cultura di Milano, che su questo tema è assolutamente impegnata a difendere posizioni simili a quelle che rappresentiamo. Sono partito inizialmente dalla questione del tema di storia, che secondo noi è un po’ un paradigma dello svuotamento di qualsiasi contenuto didattico-culturale, sia della scarsa fondatezza dei presupposti metodologico-didattici che vorrebbero essere imposti ai docenti. Adesso sto cercando di ricostruire un po' i contatti al fine di trovare relatori disponibili. Se si realizzasse, ti avvertirò in quanto è possibile seguire il tutto (in diretta o in differita) in streaming. Se ti fa piacere, ti invio qualche link dove sono compresi miei interventi recenti. 
Cordiali saluti e a presto.




Giovanni Carosotti
Liceo Statale Virgilio, Milano

venerdì 7 giugno 2019

LA FUFFOSCUOLA



alternanze e competenze; autonomie e progetti; successi formativi e stili cognitivi; inclusioni e orientamenti; classi capovolte e docenti sottosopra; bisogni speciali 
e furbizie normali. Viaggio semiserio tra i cento feticci verbali di cui da vent’anni campa la scuola italiana

modernismo velleitario, barbarie dei comportamenti, invadenza genitoriale, buonismo farisaico, mito del digitale, proliferazione degli extra, dissoluzione degli insegnamenti. Questo il bilancio finale di vent’anni di autonomia scolastica. Dalla A alla Z, le parole di un impazzimento collettivo

scepsi.ed.mattana@tiscali.it
www.scepsimattanaeditori.com
ISBN  978-88-906775-6-4
Euro 6

domenica 12 maggio 2019

Bull-shit prossima ventura


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di Angelo Bertozzi


Forse sono il solito esagerato, il solito rompiballe, se è così vi prego di dirmelo senza infingimenti, preferisco saperlo. Sto studiando la famigerata ordinanza esami e leggo questa cosa:

Nella relazione e/o nell'elaborato, il candidato, oltre a illustrare natura e caratteristiche delle attività svolte e a correlarle alle competenze specifiche e trasversali acquisite, sviluppa una riflessione in un' ottica orientativa sulla significatività e sulla ricaduta di tali attività sulle opportunità di studio e/o di lavoro post-diploma

Sta parlando di ASL anche se adesso come si fa sempre in Italia ha cambiato nome (e io francamente ne ho piene le uova di questi acronimi e di ‘ste stronzate – primo biennio, secondo biennio, ultimo anno – ma che minchia mi significa! Era così comodo, semplice, lineare, “biennio-triennio”, perché cambiare?)
Nei dibattiti processuali le domanda “suggestive” sono proibite. Secondo voi le parole “competenze acquisite, significatività” non stanno già suggerendo se non addirittura prefigurando la risposta? In altre parole un ragazzo di diciannove anni con la paura del Presidente e degli esterni, sotto lo stress dell’esame, che ricordiamoci sempre non è una bazzecola (intendo lo stress), si può sentire libero di dire fantozzianamente: “per me l’ASL è stata una CAGATA PAZZESCA”? Certo magari non proprio letteralmente, ma insomma ci siamo capiti.

mercoledì 8 maggio 2019

Sui progetti ed altre amenità


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“Quella è una classe pesante, non la posso prendere, io devo fare i progetti.”
                                                (Dichiarazione autentica di una docente)


di Angelo Bertozzi


Nell’ultimo Collegio la coordinatrice ASL ci ha comunicato che al termine del percorso ASL i ragazzi non sanno fare il report, e non sanno fare nemmeno un semplice diario di lavoro. Come risolvere questo grave problema? Niente panico, facciamo un bel progetto ad hoc. (A quel punto la mia attenzione, alla parola progetto, si è istantaneamente azzerata per cui non ricordo bene ma mi pare sia previsto l’intervento di un esperto esterno)
Magnifico esempio di cura omeopatica.
Ora a parte il non trascurabile particolare dell’uso pervicace, insistito, dell’inglese anche quando esistono eccellenti termini italiani equivalenti (relazione, rapporto, non vanno bene?), possibile che a nessuno venga in mente che se gli studenti conoscessero in modo adeguato la lingua italiana il problema di come redigere una relazione o un qualsiasi altro tipo di testo si ridurrebbe a ben poca cosa? Possibile che nessuno veda che il re è nudo? Possibile che nessuno dica a voce alta che abbiamo in aula sempre più ragazzi semianalfabeti, e che anche quelli che non lo sono hanno comunque una padronanza della lingua italiana decisamente precaria e insufficiente.
Certo, capire il perché siamo arrivati a questo non è facile, credo che le ragioni siano intricate e complesse, ma il primo passo è perlomeno rendersi conto che il problema esiste e che è grande come un elefante.
Perché una cura omeopatica?
Ho detto sopra che le ragioni ritengo siano molte, ma sicuramente una è l’impostazione attuale della scuola superiore. Mi riferisco a quella nefasta cosa che è la “scuola azienda”, la “scuola dei progetti”, la “scuola dell’Alternanza Scuola Lavoro”. Se noi togliamo ore ed ore curricolari, impegniamo i ragazzi al pomeriggio in un tourbillon di attività varie sottraendo tempo ed energie allo studio “tradizionale”, poi non è difficile capire come gli studenti siano sempre più deboli in quasi tutte le discipline. La Scuola dei progetti è ormai un luogo eterogeneo di attività varie, e non di rado pittoresche, delle quali la meno importante è diventata ormai quella vecchia, antiquata e superata cosa che è “fare lezione”.
Inoltre anche quando ci si muove sul terreno delle discipline “tradizionali” l’ottica è quella dell’addestramento; le ricette, l’allenamento ai test, la convinzione che esistano sempre degli algoritmi, delle sequenze di istruzioni che permettano di trarsi d’impaccio a fronte di un risultato da ottenere a tutti i costi. L’idea che la scuola non sia solo addestramento ma istruzione e soprattutto formazione sembra scomparsa. Concetti come: autonomia di giudizio, spirito critico, creatività, consapevolezza che è giusto e bello imparare anche cose che non hanno nessunissima utilità pratica e con le quali non si mangia, sono espulsi dall’orizzonte dei nostri ragazzi, e sono cose che solo la scuola può e sa dare, non certo quegli squallidi personaggi che si aggirano per le aule promuovendo qualche “verbo” aziendalistico nelle ore di ASL.
Ma al dunque cosa sono questi “progetti” e perché si fanno?
Una ventina di anni fa qualcuno che al Ministero della pubblica istruzione (allora c’era la parola pubblica) si annoiava fece questa bella e originalissima pensata: ohibò la scuola non si fa solo in aula, bisogna fare altro, bisogna aprirsi al territorio.
In pratica funziona così, un docente cui viene voglia di fare una cosa qualsiasi: torneo di scacchi, conferenza sullo sbarco degli alieni, ultime novità sullo Yeti, stage di cucina sarda, entomologia pratica, egittologia di base, medicina ayurvedica, e via delirando…, presenta al Collegio docenti, per farselo approvare, un bel progetto argomentando che l’attività proposta è congruente con le finalità della scuola e con la sua didattica. Può sembrare difficile spiegare che uno stage di cucina sarda in un liceo classico sia utile o addirittura necessario ai ragazzi, ma non lo è perché nella scuola italiana ci sono i migliori specialisti a livello mondiale nel campo dell’aria fritta. E in ogni caso quando il progetto viene presentato al Collegio docenti chi ascolta? E comunque chi vota contro un’iniziativa di un collega? Come si dice a Napoli pare brutto!
I docenti che fanno i progetti inoltre si beccano qualche liretta in più.
Ora, non penso certo che queste iniziative siano proprio TUTTE sbagliate o inutili (molte si), non penso che i colleghi siano in malafede (alcuni si), penso che sia una questione di priorità. A fronte di ragazzi che in storia si esprimono a livello penoso, che faticano molto a capire concetti anche abbastanza elementari, è utile occupare una o più mattine per portarli all’archivio di stato a farsi una bella ricerchina su documenti originali? Piacerebbe a me, senza dubbio, serve ai miei ragazzi? Forse a uno o due, e gli altri? Ha senso prendere in una mattina di maggio una quinta liceo che si sta preparando all’esame per portarla al torneo di bowling? Se proprio si vuole non lo si può fare al pomeriggio?
Al dunque alla conferenza sui diritti umani o sulla democrazia, magari per il docente interessantissima, tenuta in non pochi casi da relatori che non hanno la ben che minima idea di come si parli a ragazzi di 16-18 anni e che quindi utilizzano un linguaggio e un lessico a loro pressoché incomprensibile, i ragazzi compulsano il cellulare, chiacchierano, tentano di scappare. Che effetti produce in loro l’importantissima attività? Che ricadute ha sulla loro formazione? Inoltre di diritti umani o di democrazia può parlare benissimo il docente in aula a ragazzi che conosce e con i quali è in atto una relazione educativa, abbiamo proprio bisogno di un cattedratico esterno? Le cose che si insegnano a scuola, superiori comprese, sono le conoscenze di base, le cose acquisite, non le ultime novità scientifiche o accademiche (quelle lasciamole alle università e ai dottorati) siamo laureati, abilitati, siamo perfettamente in grado di insegnare quello che dobbiamo insegnare.
Anche quando andavo a scuola io, qualche rara attività extracurricolare (fuori dall’aula), si faceva, e ricordo bene la gioia nell’uscire dalle quattro mura dell’edificio scolastico, il sollievo per le noiosissime lezioni di matematica, filosofia, o altro, scampate. Da questo punto di vista non è cambiato proprio nulla. I ragazzi a priori sono contentissimi di partecipare a qualsiasi progetto, si esce dalla gabbia, verifiche non ce ne sono, non si fa lezione e todos caballeros.
Gli studenti fanno il loro mestiere ma noi facciamo il nostro?
Diamo ai ragazzi ciò di cui hanno più bisogno?
Considerazioni del tutto analoghe valgono per le visite guidate e i famigerati viaggi distruzione (senza apostrofo). Chi può pensare che non siano esperienze bellissime? Certo che spesso lo sono, ma ancora una volta quali sono le nostre priorità? Far contenti i ragazzi, socializzare piacevolmente, o tentare di risollevarli da un’ignoranza e un’insipienza paurosa?
Un viaggio d’istruzione comporta in media una perdita secca di una settimana di lezioni, a volte anche di più, aggiungiamoci progetti, visite guidate, ASL, assemblee di Istituto, assemblee di classe, elezioni, etc., quando si fa scuola? Quando, e se, resta tempo.
Perché i colleghi fanno i progetti? Sono cattivo lo so.
Si becca qualche soldo, si esce dalla scuola e si fa qualcosa di più piacevole e meno faticoso che tenere a bada un gruppo di riottosi adolescenti, si acquisisce un’aura di docente bravo e impegnato.
Queste temo siano le motivazioni, riguardo all’ultima sopraddetta registro un curioso paradosso, spesso (non sempre) i colleghi che fanno molti progetti, essendo appunto molto impegnati in quello, trascurano il banale e trito lavoro quotidiano in aula, cionondimeno, per motivi che hanno a che fare con il marketing scolastico passano per essere i docenti migliori, quelli che danno più lustro alla scuola e si prendono molto spesso il Bonus miglior docente, e così il cerchio si chiude.
E intanto i nostri ragazzi stanno diventando sempre più ignoranti e semianalfabeti.
Peppino Verdi diceva: torniamo all’antico e sarà un progresso.

Mi tolgo un ultimo sassolino dalla scarpa, nonostante tutti i miei sforzi non riesco proprio a capire cosa significa “programmazione per obbiettivi minimi”.
Proviamo a prendere per una volta sul serio i vari documenti che ministero, scuole, enti vari producono sulla scuola, la tanta, tantissima fuffa che sempre più, come quella inquietante massa viscosa di non ricordo più bene quale film di fantascienza, si espande, invade, occupa e soffoca la scuola e il nostro operato. 
-Capacità di esercitare la riflessione critica sulle diverse forme del sapere e sul loro rapporto con la totalità dell’esperienza umana. - Esercizio del controllo del discorso, attraverso l’uso di strategie argomentative e di procedure logiche. 1. Riconoscere e utilizzare correttamente il lessico e le categorie essenziali della tradizione filosofica; 2. Definire e comprendere termini e concetti; enucleare le idee centrali di un testo; 3. Saper riassumere le tesi fondamentali di un testo proposto; 4. Rispettare i principi elementari della logica nell’argomentazione; 5. Saper ricondurre le tesi individuate nel testo al pensiero complessivo dell’autore; 6. Saper ricondurre gli argomenti trattati ai rispettivi contesti storici generali a cui essi appartengono; 7. Saper confrontare e contestualizzare le differenti risposte dei filosofi allo stesso problema- (Ptof del Liceo Motzo – testo mutuato dal documento “Indicazioni nazionali per i licei DM 211 del 7 ottobre 2010”)
Gli obbiettivi proposti in questi documenti, per la maggioranza dei nostri studenti, sono semplicemente lunari, irraggiungibili. In particolare la filosofia per motivi che richiederebbero una lunga disamina, per la quasi totalità dei nostri ragazzi, è semplicemente inaffrontabile. In concreto quindi cosa si fa? Si ridimensionano ampiamente i contenuti e gli obbiettivi ufficiali e a cosa corrisponde quindi un sei? Al raggiungimento minimo degli obbiettivi così ridisegnati. Che cosa significa, da sempre nella scuola italiana, un sei? Sufficienza: sei arrivato a quel minimo che ti consente di andare avanti nello studio. I miei studenti “normali”, (so che è odioso esprimersi così ma diciamocele le cose, andiamo oltre la fuffa) sono quasi tutti in grave difficoltà nel raggiungere la sufficienza, come fanno a cavarci i piedi ragazzi con ritardi cognitivi? Questo per quel che riguarda gli alunni cosiddetti BES, (Bisogni educativi speciali) che vengono avviati su percorsi in qualche modo differenziati, ma succede anche altro, mi sono ritrovato in una quarta due ragazze con evidentissimi problemi comportamentali e ritardi cognitivi senza sostegno, senza PEI, senza PDP, percorso liscio, senza nessun supporto e ausilio, come sono arrivate in quarta?
Chi stiamo prendendo in giro? Le ragazze? Le famiglie? La scuola? Noi stessi?