domenica 7 ottobre 2012

40 anni al collasso




Un’altra estate è passata e nulla pare veramente cambiato. Supermercati traboccanti, climatizzatori a mille, prurigini esotico-turistiche, montagne di cibo sprecate, fiumi di energia dissipati in inutili fantasmagorie e modestissimi baccani rituali. L’opulento occidente tira dritto per la sua strada, quasi che il gioco debba non finire mai e la formula funzionare in eterno: i ricchi godono, i disgraziati piangono. La novità è che nel villaggio globale nessuno è così povero da non potersi permettere un vecchio televisore o un’ora di internet con cui affacciarsi un momento sui “quartieri alti”, e chiedersi “perché a me no?”. Dice il saggio che un nordamericano consuma 32 volte di più di un kenyano, e che il vero problema, oggi, non è tanto l’aumento della popolazione (in rallentamento, ma destinata comunque a toccare gli inquietanti 10 miliardi del 2100) quanto la volontà di tutti i terrestri di raggiungere gli standards dei più fortunati. Cosa che, se succedesse, richiederebbe altri 4 pianeti-terra oltre quello che già divoriamo. Surriscaldamento globale, clima impazzito, siccità, deforestazione furiosa per fare spazio ai bovini necessari per ingozzarci di carne, oceani sempre più acidi, montagne di rifiuti, scorie radioattive praticamente eterne, un’isola di detriti di plastica che galleggia al centro del Pacifico. Pare che abbiamo tirato troppo la corda e che sia ora di dire chiaro “le cose come stanno”. Dice il saggio che il limite è lontano 30-40 anni; 30-40 anni ancora di questo andazzo e la soluzione del problema si sposterà dalle mani degli uomini alla forza delle cose: epidemie, carestie, guerre, migrazioni fuori controllo, rivolte, odio di classe, violenza diffusa, autoritarismi, razzismo, genocidi, crollo demografico. È già successo altre volte, e sembra non sia bello passarci. Dice il saggio che l’unica via d’uscita ragionevole è un congruo abbassamento dei consumi dei ricchi e un sostenibile innalzamento di quelli dei poveri. Abbattere volontariamente l’idolo stolto della crescita infinita, prima che sia esso a caderci addosso. È il monito che un distinto professore di Los Angeles dallo straordinario talento multidisciplinare ha racchiuso in un libro meritevole di essere più letto. Per un primo approccio nel web: “2050, la nostra scadenza”. Dove, con l’implacabile pacatezza dei saggi, Jared Diamond spiega (in italiano) come e perché stiamo arrivando al “Collasso”.

                                                           
                                                                                                                      Gigi Monello

mercoledì 11 luglio 2012

vecchio grillo parlante


Il nuovo avanza ad un ritmo travolgente. Solerti sondaggi degli umori nazional-popolari dicono 15%. Le vecchie mummie della politica sono avvisate: il popolo è stanco, l’onda cresce. Credere in qualcosa di nuovo è come amare, sviluppa dopamina, produce euforia: Grillo è simpatico, schietto, diretto; sentirlo dà un senso di liberazione, parla chiaro, è scomodo. Loro, invece, le vecchie mummie, sono ripugnanti, caricaturali, ladre, brutte a vedersi, incomprensibili. Tutte uguali. Il messaggio è fluido, spiritoso, seducente. Ma non è vero. Se in Italia la scuola avesse funzionato in modo anche solo decente, conservando il ruolo di costruttrice di senso logico e mediatrice dell’esperienza del passato, forse discorsi “di pancia” come questi avrebbero meno presa. Se una demenziale illusione non l’avesse trasformata nello spazio tuttofare che è diventata, forse molti di più saprebbero che di fenomeni demagogico-qualunquistici pullula da sempre il patrio suolo; e che imbastire eccitanti avventure personali sopra gente incantata, è antichissima specialità nazionale. Esempi famosi? Catilina, Cola di Rienzo, Savonarola, Masaniello, Mussolini, Giannini, il recentissimo Silvio. Nelle dichiarazioni dei demagoghi ricorrono tratti inconfondibili: vaghezza, iperbole, adulazione, uso disinvolto della logica. Scorrete il programma di Grillo. Guazzabuglio pirotecnico. Si va dalle leggi pubblicate sul web con tre mesi di anticipo sulla approvazione (“perché i cittadini possano commentarle”) alla creazione di parcheggi condominiali per le biciclette (obbligatoria?); dalla disincentivazione della produzione di acqua in bottiglia (tutti a bere dai rubinetti?) ai pesanti tagli alla spesa pubblica (rigorosamente accompagnati da sussidio statale a tutti i disoccupati); “en passant” si aboliranno Eni, Enel, FFS, Telecom (al loro posto? Si vedrà). Naturalmente ce n’è anche per la scuola. Dopo la berlingueriana, la morattiana e la gelminiana, ecco la riforma grilliana: “graduale abolizione dei libri stampati e quindi loro gratuità con l’accessibilità via internet in formato digitale”. Fantastico. Digitali o no, i libri li scrivono gli esperti; e costano anni di lavoro. Li regaleranno? Un greco scrisse una volta che i demagoghi stanno ai politici come i cuochi ai medici. I cuochi allettano il corpo. I medici lo curano.


                                                                                                                        Gigi Monello 

                                                                                                        

venerdì 15 giugno 2012

Il tubo rotto e le metafisiche


Li ho trovati che stavano riformando. Li lascerò che staranno riformando. Ho passato l’intera vita professionale a leggere di riforme. Lo considero un mondo surreale, a sé stante. Qualcosa come il mondo dei miti, una dimensione rarefatta, dove i grandi apparati delle Riforme vivono di vita propria, come giganteschi animali alieni.
Mentre le vicende storiche delle Riforme si svolgevano in quel SuperMondo, io, nel mondo degli oggetti fisici (lavagne non-scrivibili, gesso sbriciolato, rumori molesti, pareti di cartongesso, circolari insulse, eccitazione da viaggio, visite, conferenze, sportelli e “giornate”), io tentavo di insegnare. Ho fatto un calcolo approssimativo: in 30 anni mi saranno ormai passati davanti qualcosa come 2000 alunni. Mentre io facevo il lavoro sporco, gli “esperti” ristuccavano il mondo. Lo dichiaro apertamente, sentir parlare di riforme mi dà la nausea.

Quando ho iniziato grandinavano sperimentazioni e la parola magica era “Brocca”. Età di sogni e fatiche sprecate. Ricordo colleghi ormai sull’orlo della giubilazione, agitarsi euforici attorno al “progetto giovani” (una delle mode del momento); o svenarsi a difesa di un proprio rigo da inserire nel Pei. Era il tempo in cui iniziava l’effervescenza “da informatica”, cresciuta sino a diventare febbre. A un certo punto sembrò che più computer ci mettevi dentro, più la scuola migliorava. In automatico.
Verso il ’94 la già scassata baracca perse gli esami di riparazione. Era un piccolo, usurato argine, ma ancora reggeva. Venne demolito e sostituito coi “debiti”; con tutto il seguito che ben conosciamo. Poi, con la smania di cancellare Gentile, arrivò Berlinguer. Teorico verboso dell’epocale spostamento: dal docente al discente; dall’aula al territorio; dai programmi alle attività. Non ricordo ebbro diluvio di parole pari a quello. Sino allo sfinimento dovemmo ascoltare il magico risuonare delle formule: scuola-azienda, studente-cliente, preside-manager, offerta, progetti, successo formativo. Il professore non più “davanti, ma accanto allo studente”. Anni di smaniare confuso attorno all’idolo del “nuovopurchessia”.

Ricordo Collegi dei docenti passati ad approvare praticamente tutto; nella selva delle braccia levate-approvanti c’era ogni umano profilo: l’ilare-scettico, il frustrato-invidioso, il furbo obolo-calcolante, il gloria-bramoso, il rassegnato-schifato, il quieto-vivente, il servile-dirigente-prostrato, il pigro-senza-vergogna. Passava di tutto, dalle piante officinali ai laboratori teatrali, dal body building all’ Intervistiamo le nostre nonne, dalla visita al salumificio-modello alla psicologia dinamica alla scientology (rammento un leggendario progetto “Sviluppiamo i talenti”, illustrato con un linguaggio che neppure Ron Hubbard…; e un'altra memorabile perla dal titolo wertmulleriano, il progetto, “Senza carezze non si può camminare a petto in fuori”). C’erano, poi, le invenzioni assolute: ricordo ancora l’ilarità incontenibile di una sera in cui il dirigente ci parlò dei “professori-antenna”, destinati a captare, in esclusiva, non ricordo bene che cosa. Per un attimo vidi la Scuola Radio Elettra di Torino. Un’ orgia demenziale. Me l’hanno fatta odiare la parola “progetto”.

Venne la Moratti, con le sue legioni di esperti e teoreti, e col suo nuovo diluvio di acronimi. Ricordate? Osa, Ofp, Psp, Lep, Ua, Pecup, Larsa. Campano ancora? Vegetano? Sono morti?

Ne sono convinto: esiste una fisica ed una metafisica della scuola. Fisico (molto fisico) è stato quel tubo rotto del bagno accanto alla mia quarta, che per un anno intero ha funestato le mie ore in quell’aula. Vibrava ad ogni scarico, con elaborate modulazioni corrispondenti ai diversi stadi di riempimento della vaschetta. E fisici (molto fisici) sono i colleghi che, puntualmente, a fine quadrimestre (e a fine anno) si portano gli alunni in sala professori o in altri angolini liberi, perché, “oddio! non ho voti!...vogliono rimediare…devo interrogarli…”. E fisiche (molto fisiche) quelle poche disperate ore pomeridiane con le classi d’esame, perché, “il compito di matematica? questi? neppure metà, ne fanno…”. E fisicissime le corse penose e trafelate, a Maggio, per “finire il programma”. Già, i programmi: Loro Altezze Riformanti mi perdonino se dico parolacce. I Programmi: cioè tutte le storie dei migliori uomini che ci hanno preceduto; e che, nella scuola, ancora vivono.

Sublime metafisica, è stato, invece, quel lungo declamare su “tramonto dell'idea di classe”, "fluidificazione dei contenuti", "destrutturazione della didattica disciplinare" (mai sintesi più perfetta del vacuo e dell’ opulento); come metafisicissima resta quella buona ora e mezza passata in Collegio a parlare di quali funzioni-obiettivo introdurre e quali requisiti richiedere ai candidati (lo confesso, mi hanno cambiato la vita, le “funzioni-obiettivo”); e le ricorrenti, micidiali dispute sui “criteri di valutazione”; che – non sia mai! – debbono tendere alla uniformità, “fatta salva l’ autonomia di ogni docente e consiglio di classe”. Come dire, “Colleghi, siamo diversi, e tali resteremo”.
“Dobbiamo stabilire i criteri…”, la risentirò in punto di morte la fatidica frase. Ma sarà troppo tardi.

Mentre io, nel fuoco di un’aula, mi lavoravo i cervelli dei piccoli scimpanzè evoluti, e me la vedevo con i loro potenti spiriti animali; loro, gli “esperti”, si inventavano osa, pecup e larsa. Mentre io mi giocavo l’azzardo di una lezione frontale, loro declamavano ad altezze stratosferiche circa la superiorità delle competenze sulle conoscenze; del saper fare sul sapere. E che arzigogoli dialettici! che dire forbito! che dispute! che sottigliezze, per spiegarci che gli inerti contenuti non bastano; occorre formare “menti critiche”. Un “grazie” di cuore ai nostri Teoreti; senza di loro non ci saremmo mai arrivati.

Mentre io, cercando l’urto di una parola capace di toccare una corda profonda, gli parlavo della singolarità di Auschwitz, loro istituivano Giornate Ufficiali della Memoria e promuovevano il turismo di massa in Polonia; con studenti che passano con auricolari e lettore mp3 sotto il ferreo arco dell’ “Arbeit macht frei”; e mangiano patatine in pieno lager. Non è che, per caso, rileggere Anna Frank o Primo Levi nella solitudine di un pomeriggio a casa, sarebbe assai meglio? Tornare, cioè, a quei privati andirivieni della mente dove soltanto si formano coscienza e intelligenza?

Anche quest’anno ho insegnato. Anche quest’anno, convinto che la scuola sia più un “dentro” che un “fuori”, più un viaggio mentale che tante piccole fughe. Intanto il tubo vibrava. Verso Aprile mi sono sfogato con un giovane bidello; e ho fatto un po’ lo spavaldo, “se mi date una chiave, lo stringo io quel dado…”. Vittorio mi ha smontato, “No, professore, non è solo il tubo che vibra, è l’intera campana…è successo anche a casa mia.” Non distinguevo tubo da campana. Mancava la competenza.

                                                                                           
                                                                                         Gigi Monello

sabato 2 giugno 2012

La penombra del prof


Grande fermento negli ambienti dei consumatori abituali di rivoluzioni copernicane nella didattica. È in arrivo una vagonata di LIM. Per chi non lo sapesse, LIM sta per “Lavagna Interattiva Multimediale”: un grande schermo che, mediante videoproiettore, riceve da un PC tutto quanto desiderate; e diventa, all’occorrenza, pannello di navigazione in rete o lavagna tradizionale. Basta far scendere la penombra e il gioco è fatto: il nativo digitale è bello che catturato, preso, immobilizzato e inebetito con le sue stesse armi; l’elettronica multicolore che gli riempie le tasche. Fenomenale. In Sardegna, anni fa sentimmo a lungo parlare di “Marte”. La sigla stava per “moduli di apprendimento su rete tecno-educativa”; confesso di avere sempre coltivato il sospetto che chi inventò l’acronimo, pensò prima ad un suono suggestivo e solo qualche ora dopo a cosa dovesse esattamente significare. Si trattava, in sostanza, di immettere massicce dosi di internet e multimedialità nella didattica quotidiana. Il tecno-professore alle prese, puta caso, con l’ironia in Socrate o la provvidenza in Manzoni, doveva guidare ricerche di gruppo tese a realizzare elaborati da scambiare, poi, con le classi sorelle nel web. Ricordo ancora una nauseata collega di matematica, “marziana per caso”, che raccontava che mentre lei interrogava, tutti gli altri erano a farsi gli affari loro su Internet. “Didattica flessibile”, “fluidificazione del concetto di classe”. Se chiedete in giro di “Marte”, vi indicheranno il cielo. Svanito nel nulla. Evaporato. Ora è la volta delle LIM. Non ho nulla contro la tecnologia. Anzi. Il punto è che faccio parte di quella categoria di privilegiati che, a differenza di metodologi e venditori, il piedino dentro le aule ce lo mette ogni giorno; e dei nativi digitali ha diretta esperienza; quanto basta per nutrire fierissimi dubbi su queste svolte tecnologiche. L’overdose di stimoli visivi e il caos di messaggi dentro il quale gli adolescenti vivono, pongono, infatti, problemi di segno opposto; siamo oramai di fronte ad un atrofizzarsi degli spazi mentali e ad un affievolimento del pensiero astratto. Per convincersene, i “nativi” bisogna ascoltarli, e soprattutto leggerli (se prima riuscite a decifrarli). Le LIM? Attacchino pure ai muri l’ultimo ritrovato. Magari a due metri da una serranda rotta. Lo userò anch’io. Non ci raccontino, però, la favola che saranno le LIM a salvare la baracca. Conosciamo troppo bene i nostri guai.



                                                                                                                      Gigi Monello

venerdì 20 aprile 2012

due P

Due grandi liturgie della P segnano inizio e fine di un anno scolastico. Ad Ottobre il docente presenta la Programmazione. A Giugno consegna i Programmi. La prima volta teorizza di metodi, obiettivi, “fabbisogni orari. La seconda dichiara il fatto (e lo firma). In mezzo c’è l'anno scolastico, con le sue tante pieghe avventurose. Non ho mai stravisto per la programmazione; forse perché ho vissuto in pieno la sovreccitazione degli anni delle tassonomiche declamazioni, quando di certi colleghi era lecito sospettare che leggessero Bloom anche dal barbiere. Ho continuato, invece, a nutrire rispetto per i programmi, che ho sempre sentito come momento di verità. E che non vivono giorni facilissimi. È un dato oggettivo che una grande varietà di attività extra erode di fatto il monte-ore destinato al lavoro “disciplinare”. Un po’ perché atterriti dal mutamento antropologico degli adolescenti, un po’ per stanchezza, un po’ per paura di procurare frustrazione, un po’ perché questo pare lo “spirito del tempo”, un numero considerevole di insegnanti ha accettato (magari con qualche mugugno) questa impostazione; dimodoché i 200 fatidici giorni di lezione convivono oramai stabilmente con “orientamenti”, conferenze, viaggi, incontri, giornate a tema, spettacoli, visite, corsi, “laboratori”, sportelli, questionari, progetti. Ovviamente non si tratta di stabilire se tali attività abbiano o meno valore culturale; in assoluto, quasi sempre lo hanno; si tratta, piuttosto, di misurare la loro “efficacia” in rapporto allo scopo principale di una scuola; in una parola, di sapere se i vantaggi non siano per caso inferiori agli svantaggi. “Impossibile fare diversamente -si sente ripetere- i ragazzi di oggi devi prenderli così”. E potrebbe anche essere. Solo che mi rimane un dubbio: siamo proprio così sicuri che quando ci dicono di non volere provare frustrazione, gli adolescenti ci stanno realmente dicendo la verità? Se spingo il pensiero indietro rivedo Carlo Melis, straordinario professore di filosofia, morto pochi giorni fa, a Cagliari, di anni 98; e rivedo quel suo terribile aggirarsi tra i banchi del Liceo Dettori anni ‘70; e quel suo ancora più terribile bloccarsi all’improvviso per rivolgere ad uno di noi un secco, “Continua”. Sì, certo, ne somministrava di bella frustrazione, Carlo Melis ai suoi allievi. Ma che scuola.

Gigi Monello

martedì 6 marzo 2012

Professori & papere




C’è, in Tv, un’allegra trasmissione di capitomboli, urti e sbattimenti. La ammannisce una rete privata; è longeva e apparentemente innocente. È “Paperissima”, la gaia rubrica di disgrazie ed accidenti vari con sottofondo di risate e marcette.
Mi sono preso la briga di seguirne una intera puntata di mezzo Agosto; eccone il menu: 1) due giapponesini giocano gentilmente a puntarsi l’emissione di un phon direttamente in faccia; 2) motociclette schizzano a pazza velocità con cadute rovinose dei piloti; 3) leone scorreggia, con abbondanti materiali escrementizi gioiosamente proiettati a distanza; 4) acquascooter finisce a folle velocità su una riva piena di gente; 5) piccola rissa tra bambini per motivi non chiari; 6) altalena si ribalta, con piccolo utente che cade a terra di testa; 7) improvvisa frana di ghiaccio e neve davanti a porta finestra, con bambina che sobbalza; 8) gentile intermezzo: veline con grosse tette che ballano; 9) bambina si leva una caccola dal naso e la infila nella bocca della bambola; 10) bambina sputa, per ritorsione, in faccia all’amichetta rea di averle spento la candelina sulla torta del compleanno. Ecco una trasmissione televisiva di successo, nell’anno del Signore 2009.

C’è un verosimile, scellerato legame tra cose come "Paperissima" e la diffusa, incancrenita indifferenza alla bugia di questi nostri tempi. In tutte le sequenze vi è un comune dettaglio: tutti i filmati sono tronchi: mancano delle conseguenze. È impossibile vedere cosa sia accaduto “dopo”. Ovvio il motivo. Il pianto disperato di un bambino, un tizio semisvenuto caricato sopra una barella, una ferita sanguinante, una faccia stravolta, guasterebbero la festa; la facilona risata di massa non scatterebbe spontanea. Una parte di realtà non si deve vedere. Ha questo magico potere, la Tv: ti sprofonda nell’immediatezza emotiva; dà quel che piace; taglia ciò che disturba.

È troppo "estremista" vedere una continuità tra l’attuale spappolamento mentale e morale delle nuove generazioni e la vittoria di questo genere di televisione? Forse no.
La faccenda, del resto, non comincia da ieri. La grande opera di “decerebrazione di massa” inizia con cose come “Drive in”, “Colpo grosso”, un certo talk show sbraitato alla Costanzo e alla Funari (dove conta il ritmo più che il contenuto). Va avanti beatamente con le “LitiInfamiglia”, “IgiochiDelleCoppie”, gli “Stranamori”; gli “SgarbiQuotidiani”, le “CarrambeCheSorpresa” (la Tv della “commozione Prêt-à-porter”). Continua a prosperare indisturbata con certe sconcezze degli ultimi tempi, le “PostePerTe”, gli “Amici”, i “PacchiDaAprire”, “LeEredità”; sino ad arrivare ai supremi vertici dell’idiozia di massa: i “GrandiFratelli”, le “IsoledeiFamosi”. Come dire, il puro “nulla” trasformato in qualcosa.

Era mai possibile che simili quantità industriali di autentico pattume, rovesciate per decenni addosso a vecchi, giovani e bambini, potessero restare senza conseguenze? Che una tale incessante, martellante, estenuante educazione alla futilità e alla banalità, non desse alla fine un risultato “sociale”?
Tutti, nell’ambiente Rai, sanno benissimo come andarono le cose. Le tv private nacquero e si affermarono selvaggiamente, dentro un torbido clima di favori, protezioni e scambi. Offrendo prodotti “facili”, si conquistarono velocemente fette sempre più cospicue del mercato della pubblicità. La Rai per non farsi staccare, si adeguò. Il risultato è di fronte agli occhi di tutti; un crollo generale e verticale della qualità; mattina, pomeriggio e sera.

Se qualcuno ancora stranisce di fronte all’inselvatichimento di tanti adolescenti, al loro imbalordimento, evidentemente è perché non afferra cosa è accaduto nella Tv di questi ultimi trent’anni. Un modello è stato dato: chi doveva, lo ha recepito, introiettato, moltiplicato. Si dirà che la Tv non ha fatto tutto da sola. E sarà pure vero. Ma certo, la sua, resta una responsabilità centrale.

Sino agli anni ’70, la accendevi e ci trovavi Manzoni e Dostoevskij, Verga e Dickens; i reportage di Gregoretti e Soldati; gli “Specchi segreti” di Nanni Loy, “le Tv7”, “le Odissee”. Accendi oggi e ci trovi Antonio Zequila - noto er mutanda -, Malgioglio, la contessa De Blanc, Giada, Platinette, Corona & Belen, Costantino, Simona Ventura; nonché l’immancabile ex miss Italia, nella veste di opinionista. Un tempo ci trovavi Gassman e Mastroianni, adesso Bonolis e Laurenti, le battutacce grevi, una continua, ossessiva, sfiancante allusione al sesso. È la tv “moderna”: un inesausto festival di pulsioni ed “effimero”: gare tra adolescenti rancorosi e arrivisti (De Filippi); salotti con la bava alla bocca (Sposini, Giletti, D’Urso); telerisse quotidiane spacciate per approfondimenti; Gabibbi, finta satira, veline biondo/more/sculettanti. Un caravanserraglio sguaiato, grottesco, demenziale.

Il mutamento antropologico è stato profondo, molecolare, devastante. Il gusto ha virato verso un edonismo volgare e facilone. Per il quale, certo, non mancava, nella nazione, una qualche storica predisposizione. Che andava, però, combattuta e corretta; e che si è invece cinicamente assecondata e sviluppata. Col bell’effetto di mandare in malora i cervelli.
Questo trash televisivo ha abituato lo spettatore ad un pensare “piccolo”, “facile”, “semplice”. Ha vellicato le cose più tristi, banali, squallide: la passione per le lotterie, il gossip basso, le liti in famiglia, le storiacce di corna, la superstizione, gli oroscopi, la dea bendata, le dietrologie emotive, la curiosità per le altrui perversioni, il sesso ubiquo, ad ogni ora, momento ed occasione; la voglia di lusso, di esteriorità sfrontata; di successo, di “apparire”.

Accendi, giri un po’ a caso, e subito ti imbatti in rubriche giornalistico/gossipare dove il tema è un classico, “cosa ne pensate di una relazione dove lei è vent’anni più vecchia di lui? Oppure, “come giudicate i rapporti sessuali tra minorenni”? E, qui, giù fiumi di luoghi comuni e frittura retorica; con una schiera di tuttologi sbavanti e sgomitanti, avidi di scena e visibilità; con l’immancabile, tristissimo esperto, pronto a mostrare la copertina di un libro. Prurigine, voyeurismo, curiosità, voglia di chiacchiera frivola e futile. Ecco il prodotto televisivo dominante.

Di recente ho visto una bella rievocazione della figura di Antonello Falqui; il regista; quello, per intenderci, di Studio Uno; di Mina, Panelli, Walter Chiari, Bice Valori, Luttazzi, le Kessler. Sono scorse sul video molte vecchie cose, pezzi da antologia dell’umorismo, vecchie canzoni, ospiti celebri; molti visi scomparsi, molte parole, molta nostalgia. Molta tenerezza per una Italia che non c’è più, e che sembrava stesse diventando migliore. Fulminante, nella sua essenzialità, l’affermazione di un intervistato (non ne ricordo il nome), “A quei tempi, chi stava in Tv era migliore di chi la vedeva”.

È la pura e semplice verità. La televisione di allora, assomigliava in qualche modo alla scuola. E come chi saliva in cattedra era (doveva essere), in genere, migliore di chi stava ad ascoltare; così in tv.
Oggi quella alleanza di fatto non esiste più. Non c’è più un convergere verso uno scopo all’incirca comune: migliorare, raffinare; coltivare ironia, buon gusto, senso della complessità. In quella vecchia Tv, ascoltavi l’italiano parlato da un signore come Andrea Barbato. E imparavi come a scuola. E capitava di sentirvi molti congiuntivi e molte “negazioni delle negazioni”. C’è differenza tra dire, “possibile”, e “non impossibile”.

Oggi, ahimè, è la scuola ad assomigliare alla televisione. Offrendosi goffamente come contenitore di mille piccoli allettamenti, essa è riuscita nella bella impresa di sfigurare e mortificare la specificità intellettuale degli insegnanti.

Di tutto questo ben coltivato disastro si è ben saputo approfittare. Tutto il magma torbido di un certo spirito furbesco–anarcoide–autoritario dell’italiano medio (maledizione quasi metastorica), è stato perfettamente intercettato dalla nuova sottocultura politica uscita dal collasso della Dc. La grande abilità di questa vischiosa e sciagurata cosa che è il tele/populismo, consiste proprio in ciò: nell'aver saputo mirabilmente coniugare paure più oggettive (criminalità, insicurezza, immigrazione, percezione di un crescente “disordine”), con antiche tendenze mentali: superficialità edonistica, inclinazione alla semplificazione, praticismo gretto.

Qualche anno fa, divenuto leader politico e sul punto di affrontare per la seconda volta Romano Prodi, l’artefice sommo del successo di questa Tv, sentenziò con feroce candore, “Non fidatevi di un professore”. Più chiaro di così.


                                                                                                                     Gigi Monello

 

(lunedì, 07 dicembre 2009)

sabato 3 marzo 2012

La scuola dell' Abracadabra




Il più perverso piacere del burocrate ministeriale sta nell’apprendere che la sua formula – inventata per dare a vedere che il mondo è sotto controllo – viene devotamente ripetuta da legioni di impiegati. Creare balocchi di successo che scherzino con l’assurdo; ecco la sua “follia”. Esempi da manuale nella scuola, dove trovi formule che assomigliano a scongiuri tribali; come, “sospeso dalle lezioni con obbligo di frequenza”. Certo, se uno pneumologo prescrivesse a qualcuno tre giorni di tassativa astensione dal tabacco con obbligo di fumare, ne rideremmo e penseremmo a res manicomialis. Stessa cosa se un andrologo ordinasse tre giorni di assoluta astinenza con obbligo di atti carnali. Ma la scuola è un posto speciale; e ciò che altrove sarebbe assurdo, in essa può d’incanto divenire sensato; e le parole magicamente cambiare significato. Sino a poco tempo fa, esistevano i “debiti”, ma si poteva non pagarli; e le sufficienze “non sufficienti”: bastava scriverle in rosso; ancora vita prospera hanno, invece, le “simulazioni” d’esame, che fruttano voti veri: come dire “simulavamo di simulare”. “Il barocco è nel mondo”, diceva il grande Gadda. Il massimo dell’ineffabile sono, però, le “sospensioni senza sospendere”. La mistica formula viene spesso pronunciata e gravemente discussa durante pensose sedute di docenti. E la sua stringente rilevanza non dà scampo: associare o no, alla pena della sospensione, il tormento finale dell’obbligo della frequenza? Questo, l’amletico dubbio. Ovviamente, come ogni onesto uomo converrebbe, tra la formula in questione e abracadabra, l’unica vera differenza è che abracadabra è più corto. E, certamente, “sospendere senza sospendere”, nel Catalogo Universale Aggiornato delle Umane Corbellerie, farebbe la sua figura. Ma il fatto è che le formule hanno un sottile potere fascinatore; rassicurano; danno la sensazione di amministrare il mondo; di trovare sempre di che rispondere al suo beffardo disordine. E non c’è luogo in Italia che abbia prodotto più formule del ministero dell’Istruzione. Da qualche anno esiste l’ANSAS (ex Irre, a sua volta ex Irrsae); significa Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica. L’ “autonomia scolastica”, il grande Feticcio. Se solo – prima di svilupparla – ci spiegassero a cosa è servita.                                         
                                                                                                                                           Gigi Monello

 


martedì 31 gennaio 2012


Chi ha il coraggio di ridere
è padrone del mondo, come
chi ha il coraggio di morire
.
(Giacomo Leopardi)



muore splinder e Picciokku emigra

il popolo delle nanità...ama Brighella, servo e sicario.


Postato da: pirosklazomane a 10:47 | link | commenti (1)

domenica, 11 ottobre 2009
Meno male che Milva c'è!

Ottima Milva. Speriamo che qualcuno dei tanti ignari che hanno allegramente consegnato il paese a questo avventuriero, ascoltandola, finalmente rinsavisca.Amburgo - Dalla Germania, un duro attacco a Silvio Berlusconi arriva da un personaggio al 100% italiano: parliamo di Milva, che, in un programma registrato per la tv tedesca Ard (e che andrà in onda domani sera) ha definito il premier "un povero folle che non capisce più nulla".
"Semplicemente - ha proseguito la cantante e attrice - Berlusconi non è intelligente. Pensa di essere migliore degli altri, ma non lo è". Ancora, Milva ha sottolineato che "ci sono persone che non hanno senso del bene comune, ma che pensano solo ai loro interessi". Vista dunque la situazione politica italiana, ha concluso il ragionamento, lei sta pensando di lasciare il Paese: "L'Italia è semplicemente insostenibile. Forse mi stabilirò a Zurigo, a Berlino, o da qualche altra parte in Germania".


(da Repubblica.it, 11 ottobre 2009)


Divorare una biografia dopo l'altra per persuadersi meglio dell'inutilità di qualsiasi impresa, di qualunque destino







Il penoso Viale del Tramonto del Cavaliere

Una ottima fotografia dello statista che ci governa, con una penetrantissima occhiata sul narcisismo dell'anziano egocentrico (cioè invecchiato male).

di Lidia Ravera, da lidaravera.it

Un vecchio, più vecchio dei suoi anni, un uomo che non riesce più a controllare le sue emozioni, che ha perso, o sta perdendo, il contatto con la realtà. Questa è l’impressione diffusa (non proprio un opinione quanto piuttosto una sensazione) di fronte al Berlusconi più recente. Quello dell’aggressione a giornali e giornalisti “incontrollabili”, a ogni opposizione (anche minima), ai meno subalterni dei suoi partners di maggioranza.
Colpisce la voce stridula, l’arrancare in cerca di una costruzione sintattica condivisa, di un aggettivo appropriato, di un epiteto efficace. È stupefacente l’infantilismo burbanzoso delle lodi rivolte a se stesso: io sono il miglior Presidente del Consiglio da prima che nascesse il mondo, io sono il più bravo di tutti e il più ricco e il più fico e tutti quelli che dicono il contrario sono invidiosi e a tutte le ragazze piace moltissimo stare alle mie cene con me medesimo e figuriamoci se le pago che fanno la fila per baciarmi le babbucce.
È quell’allentarsi dei freni inibitori, quel “me ne frego” che sottende ogni esibizione di protervia tipica dell’estrema vecchiaia e debolezza, quando, in fondo, non te ne importa più niente del giudizio degli altri, vedi soltanto te stesso e la fine che si avvicina. Allora gridi e ridi e rilanci, perché ti senti solo e hai paura.
Non per tutti la vecchiaia è così brutta, ma per i narcisisti assoluti sì. Infatti, nonostante tutto, mi fa pena, Silvio Berlusconi: contestato dal cinquantenne Fini, così padrone di sé stesso, dignitoso, quasi solenne, minacciato dal neosessantenne Bossi, così ruspante da essere radicato nel territorio come un tubero vincente, rifiutato dal cinquantenne Casini, così pericoloso da quando la Cei ha rivelato che nel Regno dei Cieli non si possono portare le escort.
Mi fa pena come tutte le “Star” quando imboccano il Viale del Tramonto.

(18 settembre 2009)




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lunedì, 14 settembre 2009
La bava dei servi

Splendido articolo di Francesco Merlo, oggi, su Repubblica. Andrebbe letto nelle aule scolastiche, dove, secondo il "Ministro", non si dovrebbe fare politica...

Ogni giorno c´è un ministro dell´Astio, il sovrauomo Brunetta innanzitutto, che vomita trivialità ora su uno ora su un altro pezzo d´Italia: i cineasti sono parassiti, la borghesia è marcia, i professori sono ignoranti, gli statali sono fannulloni, gli studenti sono stupidi, gli economisti sono sconclusionati… Insomma ogni giorno arriva un insulto, un dileggio o una derisione a carico di una categoria sociale diversa. E sono parole rivelatrici, più di un album di fotografie, parole che sono la verità di questi uomini.
parole che esprimono il senso compiuto di questi cortigiani del Principe che hanno un conto aperto con la natura o con la società e approfittano del loro potere per sfogarsi, come quei personaggi di Stendhal che cercavano a Parigi il risarcimento degli affronti subiti in provincia.
E infatti non si erano mai visti governanti così furiosi contro i governati. Giganti in esilio dentro corpi politicamente troppo angusti, Brunetta, Gelmini, Bondi e, qualche volta, anche Sacconi e Tremonti, trattano l´Italia come una pessima bestia da addomesticare, hanno elevato il disprezzo ad arte di governo, vogliono far espiare al Paese le loro inadeguatezze e le loro frustrazioni.
Bondi per esempio crede che la cultura sia il computo di sillabe in versi sciolti. Brunetta, che non sopporta la bassezza degli indici di produttività, vorrebbe disitalianizzare l´Italia per farne un campo di concentramento laburista: il lavoro detentivo rende liberi, belli, grandi e anche biondi. La Gelmini persegue un sessantotto al contrario che lobotomizzi fantasia e dottrina e mandi al potere i ragionieri con la lesina come scettro.
Di Bossi è inutile dire: vanta una lunga carriera fondata sulla parolaccia, sul dito medio, sulla scatole rotte, sulla carta igienica, sul ce l´ho duro…
Benché nessun governo abbia mai teorizzato e praticato l´offesa dei propri elettori come scienza politica, l´attacco alla cultura non è certo una novità. Goebbels, che era piccolo, nero e zoppo, metteva la mano alla pistola. Scelba, che era calvo e rotondo come un arancino, coniò il neologismo – culturame – ora rilanciato da Brunetta. Anche Togliatti sfotteva in terronio maccheronico il terrone Vittorini, e più in generale il Partito comunista riconosceva solo gli intellettuali organici, cioè gli intellettuali senza intelletto ma con il piffero…
Insomma, fare guerra alla cultura è sempre nevrosi, alla lunga perdente, ed è comunque manganello nelle sue varie forme, reali e metaforiche. Oltraggiare la cultura è uno scandalo penoso: è come sparare in chiesa, impiccare i neri, imputare all´immigrato clandestino la sua miseria, punire la sofferenza come un reato. Ed è un altro modo di organizzare ronde, magari sotto forma di squadracce ministeriali: prediche, comizi, fatwa…
Se Brunetta potesse pesterebbe i vari Placido d´Italia, da Dario Fo a Umberto Eco e, per imparzialità, anche Pippo Baudo e Fiorello. Per Brunetta e Bondi, infatti, gli uomini colti sono la misura della propria dannazione, lo specchio della propria nudità, come Berlusconi visto dalla D´Addario.
Con quegli uomini, che ora chiamano parassiti, Brunetta e Bondi non sono mai riusciti ad intrattenersi neppure quando militavano a sinistra. È da allora che covano rancori. Odiano i salotti (cioè le buone maniere) che li tenevano a distanza. Disprezzano i libri che non hanno letto né tanto meno scritto e che per il popolo della Padania sono ciapa pulver, acchiappa polvere, deposito di pulviscolo.
Sono rancorosi, Brunetta e Bondi, perché sono stati di sinistra e ora ne sono pentiti visto che solo la destra plebea e indecorosa li ha “capiti”, promossi e ben ripagati. Come gli ebrei convertiti dell´Inquisizione cristiana rimproveravano a Cristo la debolezza di amare tutti, così questi ministri cortigiani rimproverano alla casa di produzione Medusa, che appartiene al loro dio, di investire sui nemici di dio, sudditi infidi che loro conoscono come se stessi.
Dunque i ministri dell´Astio danno del parassita agli artitisti di sinistra perché non sopportano che siano sovvenzionati dal loro stesso padrone senza neppure baciargli la mano. Addirittura quelli gliela addentano! Ebbene questa, signori ministri dell´Astio, è stizza.
È la stizza di chi, per avere i favori del Principe, non ha badato a spese, ha cambiato i propri connotati, ha ceduto l´anima, si è legato a doppie catene al suo carro. E ora vede che i vari Placido – non importa se bravi o meno – non si sono fatti ipnotizzare dalla medusa che li paga.
In buona sostanza, l´insulto come forma governo è espressione di malafede e di malessere, un impasto di vita vissuta male e di autoespiazione forcaiola: un film drammatico insomma.
Dunque Michele Placido non li quereli, ma li metta in scena. Con i soldi della Medusa. Titolo? “La bava dei servi”.

 
Un normalissimo Tg4 di fine estate

Completo chiaro, capello in ordine, pelle un po’ stracca nonostante la sarda abbronzatura. Ma la forma non manca mai. È vecchio del mestiere, lui. Son decenni che lo esercita impeccabile. Emilio elenca i titoli dei servizi. Si parlerà di attualità politica? Delle recenti, fangose vicende? Ma certo: annuncia “interviste raccolte in giro per Milano”. Un attimo di pazienza. Parte un lunghissimo commento al controesodo estivo, con tanto di spettacolari riprese dall’elicottero. Tutto è fatto per rassicurare: lunghi incolonnamenti, certo, caselli intasati; ci si immagina il caldo, il sudore, il nervosismo; ma, dall’alto, tutto sembra magicamente in ordine, quasi bello; la voce autorevole e ferma dell’ufficiale pilota tranquillizza, toglie l’ansia; sembra dire, “eccoli i soliti Italiani casinisti e caciaroni, che tornano partendo tutti assieme, lo stesso giorno, alla stessa ora; ma non preoccupatevi, ci siamo qui noi a sorvegliarli, nel caso i casini fossero troppo grandi…”.

Arrivano  le annunciate “interviste”. Milano: quattro sfigati sotto il sole parlano con in mano un quotidiano aperto. “Che leggeva signora?”,  “Ah..nulla..di questa storia dei bagagli smarriti negli aeroporti”. “E lei signore?”, “Oh …niente…di questo caso di influenza a Monza”. “E lei?”, “Ah…vede,  qui, ‘sta storia del Vescovo, che se la prende con l’attacco disgustoso contro l’Avvenire…ma, senta, per me, dico…di attacchi disgustosi ce ne sono stati da tutte le parti, in questi mesi…”. Ultimo intervistato “Lei che leggeva?” “Ehhh…leggevo del clima...ha fatto troppo caldo sinora; speriamo ci lasci un po’ in pace”.Morale della favola: su quattro italiani, tre se ne fregano delle faccende politico-sessuali del Cavaliere, e uno gli dà ragione. Queste le “riflessioni della gente”, come dice l’ineffabile Emilio.Si passa all’Influenza in arrivo. “Niente allarmismi”, si premura di ammonire il Direttore, anche se – aggiunge – nulla deve ovviamente essere nascosto alla pubblica opinione. La parola all’illustre infettivologo: “certo, certo, arriverà ad Ottobre, ma cribbio! sopravviveremo! Non è mica vaiolo!”. L’Emilio annuisce soddisfatto. È adesso la volta di Silvio l’africano: eccolo il capo del governo della Repubblica che abbraccia l’amico Gheddafi. Gran giorno questo! Si fa festa ad una dittatura quarantennale; nulla di più adatto per inaugurare i cantieri della grande litoranea che costruiremo noi italiani. In cambio – siamo mica fessi – ci sono buoni affari, anzi ottimi: metano del deserto a volontà e più controllo sulle spiagge dei barconi. Quinto servizio: preparativi del congresso PD; poveracci, naturalmente se le danno di santa ragione, il clima è quello di “veleni e pugnali”. Sesto servizio: intervista a Nicola La Torre, PD, uno scelto a caso. “Troppo antiberlusconismo, senatore?”; risposta: “Non si può essere solo un partito dei no”. Scorre il miele nel padiglione di Emilio; è tutto un gongolare. Settimo servizio: meeting di Comunione e Liberazione: eccola finalmente una gioventù sana. Ottavo: pazzie del tempo, tromba d’aria a Savona, vola per aria un pattino, paura e contusi in spiaggia. Nono: vacanze ad Ischia: c’è chi arriva e c’è chi parte. “Vacanze finite, signora?”, “Ehh…purtroppo sì”. Decimo “reportage”: campionati mondiali di tango a Buenos Aires.

Fine del Tg4; e fine dell’estate. Chiusura sorridente: solita battutina vetero/galante con la giornalista al monitor; e arrivederci alla prossima!Della cosa di cui tutte le prime pagine rigurgitano, del fatto che la sparata di Feltri contro il direttore dell’Avvenire, pare si basi su fonti pericolosamente dubbie; di questo, nulla, niente, silenzio di tomba, neppure un sospiro, un fiato.Ah! Dimenticavamo: i campionati di tango argentino, li ha vinti una coppia giapponese.

Gigi Monello 

Corpo 18

Ovvero, "L'arte è un appello al quale molti rispondono senza essere stati chiamati." (Leo Longanesi)
Il congegno della serata era perfettamente oliato, il titolo di un’audacia mai vista, “Launeddas all’idrogeno”. Un’idea brillante, come sempre venuta a lui, il suo nume e mentore, il critico-amico, Euforbio. Tutto gli doveva: massime, di avergli spiegato come funziona l’arte. “Vedi – gli diceva – non illuderti: vendere quadri non conta. Conta quanto si parla di te. C’è gente di fama consolidata, invitata, citata, stracitata, che ha venduto pochissimo. Dà retta: coltiva l’ambiente”. Era saggio Euforbio; un uomo saggio e buono; che certo non si meritava di venir trascinato all’altro mondo da una cosa volgarissima come un cancro alla prostata. Una roba da tutti. Destino infame…Lui, che aveva lasciato al mondo cose immortali come, “Il manuale del pittore come uomo sociale”, il cui capitolo 7°, (“Dell’arte di convertire in bello ciò che è soltanto difficile a capirsi”), era diventato oggetto di tesi universitarie e comunicazioni tra dotti. Lui, l’ineguagliato costruttore di aforismi (“Se l’arte è menzogna, non è men vero che la menzogna è arte”). Lui, l’intellettuale forbito, ironico, luciferino, spacciato da un male che viene pure a domestici e benzinai.
Ahhh…ma l’ultima idea brillante aveva pur fatto a tempo a lasciargliela, l’arma risolutiva, quella che finalmente l’avrebbe consacrato perfetto pittore della sua provincia: Launeddas all’ idrogeno, appunto.
“Vedi –usava dire– l’arte è come un sistema chiuso, autoreferenziale…”. Oh! Quella parola! Così lunga e difficile, a u t o r e f e r e n z i a l e…che gusto, che suono; aveva iniziato ad usarla molto tempo prima di averne capito il senso; una parola densa, profonda, oscura al punto giusto.
Intendiamoci: non sempre Euforbio parlava difficile. Anzi, talora inclinava persino al popolaresco. Notissima, e passata in leggenda, quella volta che aveva zittito una saccente e ipertricotica Accademica dell’arte, fulminandola con un “ma si vada a fare una ceretta!” E un’altra, che aveva liquidato un malcapitato che lo contraddiceva con un, “ma vada a rubare un motopicco!”.
Un giorno, seduto al bar, Euforbio aveva disposto in cerchio un accendino, un tappo di sughero, un bicchiere, una sigaretta, una tazzina e qualcos’altro; poi, con diabolica lentezza, aveva cominciato, “Vedi, questo è l’artista, questo il gallerista, questo il critico, l’assessore, il giornalista…Allora, funziona così: tu inventi una mostra dal titolo bizzarro, il gallerista-amico te la ospita, l’assessore-amico te la inaugura, il critico-amico te la presenta, il giornalista-amico te la recensisce sul quotidiano locale. Il gioco è fatto. Tu leggi, ti gasi, e nove mesi dopo hai già in canna un'altra mostra. E il giro riparte. Non hai venduto neppure un quadro che sia uno?! Fa nulla. Stai in corpo 18 sul giornale. E questo basta.”
Si avvicinava la data fatale e Launeddas all’idrogeno era sulla bocca di tutti: si chiacchierava, si domandava, si ipotizzava. Qualcuno – un decrepito giornalista che in gioventù le aveva suonate – gridava alla dissacrazione. Venne infine il gran giorno: il Discepolo di Euforbio si vestì secondo i precetti del maestro – che suggeriva, per queste occasioni, una “eleganza sbadata” – poi provò allo specchio 77 volte un “sorrisetto di metafisica nausea” – anch’esso raccomandato nel manuale –; quindi uscì e si incamminò. Stava pensando a quale aerea battuta fare all’ingresso in Galleria, quando sentì il piede destro orrendamente scivolargli in avanti. “Dio!  – pensò sconvolto – fa che non sia quello che temo!” Mise una mano sulla cantonata e ruotò lentamente la suola verso l’alto: nessun dubbio. Rifiuto solido organico, deiezione biologica, immondo prodotto finale di  digestione canina. Insomma, merda. Stramaledisse tutti i cani della città e le anziane signore che se ne dilettavano; poi, volgendosi assorto verso Monte S. Michele dove, sotto un cipresso, ne imputridivano romanticamente le ossa, mormorò, “Euforbio, amico di una vita, tutto prevedevi, Tu. Ma ti sfuggì l’escremento.”

 Gigi Monello


giovedì, 27 agosto 2009
declamatio number one

Ritegno alcun non ho
nel dirti infine che
per quanto io ne so
non tocca affatto a me
se vuoi procurerò
per far contento te
di andar dove non so
ma il resto spetta a te
Sperando che fra tre
secondi arriverò
a definir perché
ti piaccia tanto e un po’
Di certo io non so
quello che aggrada a me
essendo già da un pò
che appare un alcunché
Ammesso che però
non dispiacendo a te
si possa fare sì
di aprire un altro che
io pregoti perciò
di fare a meno che
quantunque che con ciò
conciòsiacosaché;
l’ameno che ti do
ha un certo non so che
dimodoché vorrò
tanto e talmente che
di fatto non lo so
ma adesso mi urge che
tu sappia dove sto
durante un perciocché
indaffarato o no
incerto di un checché.
Infine io però
vengo a chiarirti che
financo neanche un po'
di senso qui ce n'è.

 

il Cavaliere De Escortis e le Pape


Storico incontro e scambio di battute, ieri, a Ciampino, sotto lo sguardo di vago compatimento del cardinal Bertone, tra il Papa in partenza per la Repubblica Ceca, e il Cavaliere de Escortis, in arrivo dagli USA. "Presidente, che gioia vederla... lei torna ora dall'America". Al che, risuona nell'aria la frase destinata a restare immortale negli annali della galassia, "Santità, ho corso nei cieli per essere puntuale". Che, riconosciamolo, fa molto Nembo Kid.Intanto AnnoZero spara in faccia al popolo ignaro (alla "gente") una bella intervista alla D'Addario. Ciò che il mondo ha già visto, finalmente lo vedono, ora, anche i diretti interessati.Insomma, diciamola tutta: l'economia va male, la scuola affonda, la sanità annaspa, i servizi pubblici zoppicano, in Afghanistan ci sparano addosso; però, in compenso, abbiamo un Presidente del Consiglio che non sbaglia una mossa.

L'ultima volta ieri, a Pittsburgh, saluto ufficiale alla statuaria Michelle Obama; il Cavaliere le si fa incontro, alza entrambe le mani, fa una smorfia teatrale, come dire, "Ma che strafiga che ti sei procurato, caro Barack, ed è pure gratis!". Roba da imbarazzare persino un pastore di Oliena fatto di birra, al sabato sera.

Bene, consoliamoci, il mondo parla di noi; siamo diventati la barzelletta del pianeta, serviamo a lenire le preoccupazioni per i catastrofici, imminenti cambiamenti del clima: la gente ride e non ci pensa. Come fanno in Egitto, tra palme e piramidi; troppo spiritosi...


Eh sì, riesce sempre più difficile suonarla...

muore Splinder e picciokku esporta

Gigi Monello

martedì, 26 ottobre 2010

colpe & colpi

Buone notizie dal mondo della scuola. La ricerca filosofico-alchemica degli studenti milanesi intorno agli elementi del cosmo, procede con profitto. Dopo l’acqua, presa a tema dai quattro impagabili eroi che nel 2004 allagarono il Liceo Parini al nobile scopo di evitare un compito di greco (330.000 euro di danni, scuola chiusa per mesi), adesso è la volta del fuoco. La scena è l’Istituto professionale “Caterina da Siena”, dove un promettente sedicenne, al cambio dell’ora, in attesa del povero disgraziato cui è toccato in sorte di istruirlo, pensa bene di ingannare il tempo dando fuoco ad un pezzo di carta infilato nella serratura della porta dell’aula accanto. Non contento di sé, il Poeta della combustione preleva un estintore, e, non si sa bene se per spegnere le fiamme o variare il gioco (propendo per la seconda), si accinge a spargere schiuma per il mondo, quando, di fronte a sé, trova il disgraziato tenutario della classe vicina: aspro rimprovero dell’adulto; “me ne infischio” e giramento di tacchi; probabile mano sulla spalla dell’adolescente; probabile insistenza per una “spiegazione”. Risultato: estintorata in piena faccia, quattro denti rotti, traumi vari, quindici giorni di cure. In attesa dell’Araldo della terra che scavi una galleria sotto il suo Istituto facendone sprofondare un’ala, e del Profeta dell’aria che riesca a scoperchiare un tetto, è assolutamente imperdibile la dichiarazione surrealista della preside della scuola, “È stata una bravata di un ragazzo che ha problemi di crescita e di esuberanza (…) dobbiamo tutelare chi è in difficoltà. Non abbiamo alcuna intenzione di allontanarlo dalla scuola o di prendere provvedimenti che possano danneggiarlo. Un atteggiamento inutilmente vendicativo non servirebbe a nessuno”. Sorvoliamo sulla parola “esuberanza”, che messa vicino ad una estintorata in piena faccia ha una sua irresistibile comicità; e lasciamo pure cadere la fumosa retorica dell’ “inutile vendetta” (che condurrebbe a sopprimere i tribunali per i minori); chiediamoci, invece, se per caso non sia venuta l’ora di misurare quale enorme danno sociale ha prodotto il finto progressismo di questa scuola dell’ “inclusione a tutti i costi”; che a furia di includere tutti, si è a tal punto degradata da non servire più a nessuno.


                                                                                                                            
Il tubo rotto e le metafisiche



Li ho trovati che stavano riformando. Li lascerò che staranno riformando. Ho passato l’intera vita professionale a leggere di riforme. Lo considero un mondo surreale, a sé stante. Qualcosa come il mondo dei miti, una dimensione rarefatta, dove i grandi apparati delle Riforme vivono di vita propria, come giganteschi animali alieni.
Mentre le vicende storiche delle Riforme si svolgevano in quel SuperMondo, io, nel mondo degli oggetti fisici (lavagne non-scrivibili, gesso sbriciolato, rumori molesti, pareti di cartongesso, circolari insulse, eccitazione da viaggio, visite, conferenze, sportelli e “giornate”), io tentavo di insegnare. Ho fatto un calcolo approssimativo: in 30 anni mi saranno ormai passati davanti qualcosa come 2000 alunni. Mentre io facevo il lavoro sporco, gli “esperti” ristuccavano il mondo. Lo dichiaro apertamente, sentir parlare di riforme mi dà la nausea.

Quando ho iniziato grandinavano sperimentazioni e la parola magica era “Brocca”. Età di sogni e fatiche sprecate. Ricordo colleghi ormai sull’orlo della giubilazione, agitarsi euforici attorno al “progetto giovani” (una delle mode del momento); o svenarsi a difesa di un proprio rigo da inserire nel Pei. Era il tempo in cui iniziava l’effervescenza “da informatica”, cresciuta sino a diventare febbre. A un certo punto sembrò che più computer ci mettevi dentro, più la scuola migliorava. In automatico.
Verso il ’94 la già scassata baracca perse gli esami di riparazione. Era un piccolo, usurato argine, ma ancora reggeva. Venne demolito e sostituito coi “debiti”; con tutto il seguito che ben conosciamo. Poi, con la smania di cancellare Gentile, arrivò Berlinguer. Teorico verboso dell’epocale spostamento: dal docente al discente; dall’aula al territorio; dai programmi alle attività. Non ricordo ebbro diluvio di parole pari a quello. Sino allo sfinimento dovemmo ascoltare il magico risuonare delle formule: scuola-azienda, studente-cliente, preside-manager, offerta, progetti, successo formativo. Il professore non più “davanti, ma accanto allo studente”. Anni di smaniare confuso attorno all’idolo del “nuovopurchessia”.

Ricordo Collegi dei docenti passati ad approvare praticamente tutto; nella selva delle braccia levate-approvanti c’era ogni umano profilo: l’ilare-scettico, il frustrato-invidioso, il furbo obolo-calcolante, il gloria-bramoso, il rassegnato-schifato, il quieto-vivente, il servile-dirigente-prostrato, il pigro-senza-vergogna. Passava di tutto, dalle piante officinali ai laboratori teatrali, dal body building all’ Intervistiamo le nostre nonne, dalla visita al salumificio-modello alla psicologia dinamica alla scientology (rammento un leggendario progetto “Sviluppiamo i talenti”, illustrato con un linguaggio che neppure Ron Hubbard…; e un'altra memorabile perla dal titolo wertmulleriano, il progetto, “Senza carezze non si può camminare a petto in fuori”). C’erano, poi, le invenzioni assolute: ricordo ancora l’ilarità incontenibile di una sera in cui il dirigente ci parlò dei “professori-antenna”, destinati a captare, in esclusiva, non ricordo bene che cosa. Per un attimo vidi la Scuola Radio Elettra di Torino. Un’ orgia demenziale. Me l’hanno fatta odiare la parola “progetto”.

Venne la Moratti, con le sue legioni di esperti e teoreti, e col suo nuovo diluvio di acronimi. Ricordate? Osa, Ofp, Psp, Lep, Ua, Pecup, Larsa. Campano ancora? Vegetano? Sono morti?

Ne sono convinto: esiste una fisica ed una metafisica della scuola. Fisico (molto fisico) è stato quel tubo rotto del bagno accanto alla mia quarta, che per un anno intero ha funestato le mie ore in quell’aula. Vibrava ad ogni scarico, con elaborate modulazioni corrispondenti ai diversi stadi di riempimento della vaschetta. E fisici (molto fisici) sono i colleghi che, puntualmente, a fine quadrimestre (e a fine anno) si portano gli alunni in sala professori o in altri angolini liberi, perché, “oddio! non ho voti!...vogliono rimediare…devo interrogarli…”. E fisiche (molto fisiche) quelle poche disperate ore pomeridiane con le classi d’esame, perché, “il compito di matematica? questi? neppure metà, ne fanno…”. E fisicissime le corse penose e trafelate, a Maggio, per “finire il programma”. Già, i programmi: Loro Altezze Riformanti mi perdonino se dico parolacce. I Programmi: cioè tutte le storie dei migliori uomini che ci hanno preceduto; e che, nella scuola, ancora vivono.

Sublime metafisica, è stato, invece, quel lungo declamare su “tramonto dell'idea di classe”, "fluidificazione dei contenuti", "destrutturazione della didattica disciplinare" (mai sintesi più perfetta del vacuo e dell’ opulento); come metafisicissima resta quella buona ora e mezza passata in Collegio a parlare di quali funzioni-obiettivo introdurre e quali requisiti richiedere ai candidati (lo confesso, mi hanno cambiato la vita, le “funzioni-obiettivo”); e le ricorrenti, micidiali dispute sui “criteri di valutazione”; che – non sia mai! – debbono tendere alla uniformità, “fatta salva l’ autonomia di ogni docente e consiglio di classe”. Come dire, “Colleghi, siamo diversi, e tali resteremo”.

“Dobbiamo stabilire i criteri…”, la risentirò in punto di morte la fatidica frase. Ma sarà troppo tardi.

Mentre io, nel fuoco di un’aula, mi lavoravo i cervelli dei piccoli scimpanzè evoluti, e me la vedevo con i loro potenti spiriti animali; loro, gli “esperti”, si inventavano osa, pecup e larsa. Mentre io mi giocavo l’azzardo di una lezione frontale, loro declamavano ad altezze stratosferiche circa la superiorità delle competenze sulle conoscenze; del saper fare sul sapere. E che arzigogoli dialettici! che dire forbito! che dispute! che sottigliezze, per spiegarci che gli inerti contenuti non bastano; occorre formare “menti critiche”. Un “grazie” di cuore ai nostri Teoreti; senza di loro non ci saremmo mai arrivati.

Mentre io, cercando l’urto di una parola capace di toccare una corda profonda, gli parlavo della singolarità di Auschwitz, loro istituivano Giornate Ufficiali della Memoria e promuovevano il turismo di massa in Polonia; con studenti che passano con auricolari e lettore mp3 sotto il ferreo arco dell’ “Arbeit macht frei”; e mangiano patatine in pieno lager. Non è che, per caso, rileggere Anna Frank o Primo Levi nella solitudine di un pomeriggio a casa, sarebbe assai meglio? Tornare, cioè, a quei privati andirivieni della mente dove soltanto si formano coscienza e intelligenza?

Anche quest’anno ho insegnato. Anche quest’anno, convinto che la scuola sia più un “dentro” che un “fuori”, più un viaggio mentale che tante piccole fughe. Intanto il tubo vibrava. Verso Aprile mi sono sfogato con un giovane bidello; e ho fatto un po’ lo spavaldo, “se mi date una chiave, lo stringo io quel dado…”. Vittorio mi ha smontato, “No, professore, non è solo il tubo che vibra, è l’intera campana…è successo anche a casa mia.” Non distinguevo tubo da campana. Mancava la competenza.


                                                                                    gigi monello

Postato da: pirosklazomane a 22:28 | link | commenti (9)

martedì, 20 luglio 2010
Diventare Dio a sedici anni
 
Diventare Dio a sedici anni
Mauro Pilleri

DIVENTARE DIO
A SEDICI ANNI
una certa gioventù
tra juke box e India
€ 13.00
ISBN 978-88-902371-6-4
pag. 112
Scepsi & Mattana Editorihttp://www.scepsimattanaeditori.com/
L’onda anomala li prese in pieno; non ebbero scampo. Erano figli di famiglie rispettabili della Cagliari anni ’60; a scuola studiavano aoristi e ablativi assoluti; in tv guardavano sceneggiati e tribune politiche; si immaginavano medici, avvocati. Ma nell’aria qualcosa “stonava”: nei juke box di via Dante gracchiava “Satisfaction”. Quel suono sporco, battente, spezzò qualcosa. E quella volta il gioco fallì: la normalità adulta fu “rimandata”. C’era un tono sfrontato in quella chitarra; nuovo, speciale: “gente! raccontatela giusta! siamo chiusi a chiave in un mistero, forse siamo qua solo per provare sensazioni; e quelle che voi ci date non ci piacciono… I can’t get no”. Pistole cariche, gli adolescenti; c’è in loro un pulsare torbido di voglie e ideali, un magma confuso, un eccesso di forze, un’illusione di eternità; può succedere di tutto. Solo dieci anni prima quella carica sarebbe stata gite, stadio, pallone, beffe di strada, amici, bar, ragazze. Per loro fu rock, politica, viaggi, capelli lunghi, contestazione, liberazione femminile, libri, teorie. E hashish, tanto hashish. Una generazione, quattro racconti, una corsa di vent’anni. Da via Dante si finisce in India per poi tornare agli amici di sempre. Erano giovani negli anni sessanta: furono gli ultimi ad illudersi in grande. Cagliari, via Dante, Auro, Gelpo, Giano: un milione di anni fa…


Mauro Pilleri è nato a Cagliari nel 1950. Sua madre insegnava, suo padre amministrava proprietà di famiglia. Finiti gli studi classici, ha vissuto in prima fila gli anni ruggenti della contestazione giovanile a Cagliari e dintorni. Nell’estate del 1974, lasciata l’università, è partito per l’India, dove ha soggiornato qualche mese; cioè meno di quanto avrebbe voluto. È stato sposato sino al 1991 e ha due figli. Impiegato del Ministero della PI, da sempre coltiva la passione per la scrittura. Diventare Dio a sedici anni è la sua opera prima.



Per la foto di copertina si ringrazia Pier Giorgio Santoru

Postato da: pirosklazomane a 23:30 | link | commenti (1)

sabato, 05 giugno 2010
i finti bonari iperattivi


Qualche settimana fa il quotidiano “il Fatto” di Padellaro e Travaglio, ha pubblicato in prima pagina, sotto il plutarchiano titolo “Vite parallele”, un testo di Elsa Morante. Ho poi scoperto che esso circolava da tempo in rete, dove era anche rintracciabile una versione completa della pagina di diario stesa dalla scrittrice il 1° Maggio del 1945. Propongo ai visitatori di leggerlo con la disposizione mentale ad attenuare il valore di alcuni vocaboli (esempio: da“delitto” a “reato”). Mi pare un bel testo, denso, impietoso, profondo; degno di comparire in una antologia intorno al "carattere degli Italiani". Vicino, che so? a Flaiano e Barzini.




Roma 1° maggio 1945

Mussolini e la sua amante Clara Petacci sono stati fucilati insieme, dai partigiani del Nord Italia. Non si hanno sulla loro morte e sulle circostanze antecedenti dei particolari di cui si possa essere sicuri. Così pure non si conoscono con precisione le colpe, violenze e delitti di cui Mussolini può essere ritenuto responsabile diretto o indiretto nell’alta Italia come capo della sua Repubblica di Sociale. Per queste ragioni è difficile dare un giudizio imparziale su quest’ultimo evento con cui la vita del Duce ha fine. Alcuni punti però sono sicuri e cioè: durante la sua carriera, Mussolini si macchiò più volte di delitti che, al cospetto di un popolo onesto e libero, gli avrebbe meritato, se non la morte, la vergogna, la condanna e la privazione di ogni autorità di governo (ma un popolo onesto e libero non avrebbe mai posto al governo un Mussolini). Fra tali delitti ricordiamo, per esempio: la soppressione della libertà, della giustizia e dei diritti costituzionali del popolo (1925), la uccisione di Matteotti (1924), l’aggressione all’Abissinia, riconosciuta dallo stesso Mussolini come consocia alla Società delle Nazioni, società cui l’Italia era legata da patti (1935), la privazione dei diritti civili degli Ebrei, cittadini italiani assolutamente pari a tutti gli altri fino a quel giorno (1938).
Tutti questi delitti di Mussolini furono o tollerati, o addirittura favoriti e applauditi. Ora, un popolo che tollera i delitti del suo capo, si fa complice di questi delitti. Se poi li favorisce e applaude, peggio che complice, si fa mandante di questi delitti. Perché il popolo tollerò favorì e applaudì questi delitti? Una parte per viltà, una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse o per machiavellismo. Vi fu pure una minoranza che si oppose; ma fu così esigua che non mette conto di parlarne. Finché Mussolini era vittorioso in pieno, il popolo guardava i componenti questa minoranza come nemici del popolo e della nazione, o nel miglior dei casi come dei fessi (parola nazionale assai pregiata dagli italiani).
Si rendeva conto la maggioranza del popolo italiano che questi atti erano delitti? Quasi sempre, se ne rese conto, ma il popolo italiano è cosìffatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa scegliere fra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo tornaconto. Mussolini, uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto, era ed è un perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo. Presso un popolo onesto e libero, Mussolini sarebbe stato tutto al più il leader di un partito con un modesto seguito e l’autore non troppo brillante di articoli verbosi sul giornale del suo partito. Sarebbe rimasto un personaggio provinciale, un po’ ridicolo a causa delle sue maniere e atteggiamenti, e offensivo per il buon gusto della gente educata a causa del suo stile enfatico, impudico e goffo. Ma forse, non essendo stupido, in un paese libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura, alla fine. In Italia, fu il Duce.
Perché è difficile trovare un migliore e più completo esempio di Italiano. Debole in fondo, ma ammiratore della forza, e deciso ad apparire forte contro la sua natura. Venale, corruttibile. Adulatore. Cattolico senza credere in Dio. Corruttore. Presuntuoso: Vanitoso. Bonario. Sensualità facile, e regolare. Buon padre di famiglia, ma con amanti. Scettico e sentimentale. Violento a parole, rifugge dalla ferocia e dalla violenza, alla quale preferisce il compromesso, la corruzione e il ricatto. Facile a commuoversi in superficie, ma non in profondità, se fa della beneficenza è per questo motivo, oltre che per vanità e per misurare il proprio potere. Si proclama popolano, per adulare la maggioranza, ma è snob e rispetta il denaro. Disprezza sufficientemente gli uomini, ma la loro ammirazione lo sollecita. Come la cocotte che si vende al vecchio e ne parla male con l’amante più valido, così Mussolini predica contro i borghesi; accarezzando impudicamente le masse. Come la cocotte crede di essere amata dal bel giovane, ma è soltanto sfruttata da lui che la abbandonerà quando non potrà più servirsene, così Mussolini con le masse. Lo abbaglia il prestigio di certe parole: Storia, Chiesa, Famiglia, Popolo, Patria, ecc., ma ignora la sostanza delle cose; pur ignorandole le disprezza o non cura, in fondo, per egoismo e grossolanità. Superficiale. Dà più valore alla mimica dei sentimenti, anche se falsa, che ai sentimenti stessi. Mimo abile, e tale da far effetto su un pubblico volgare. Gli si confà la letteratura amena (tipo ungherese), e la musica patetica (tipo Puccini). Della poesia non gli importa nulla, ma si commuove a quella mediocre (Ada Negri) e bramerebbe forte che un poeta lo adulasse. Al tempo delle aristocrazie sarebbe stato forse un Mecenate, per vanità; ma in tempi di masse, preferisce essere un demagogo. Non capisce nulla di arte, ma, alla guisa di certa gente del popolo, e incolta, ne subisce un poco il mito, e cerca di corrompere gli artisti. Si serve anche di coloro che disprezza. Disprezzando (e talvolta temendo) gli onesti, i sinceri, gli intelligenti poiché costoro non gli servono a nulla, li deride, li mette al bando. Si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, e quando essi lo portano alla rovina o lo tradiscono (com’è nella loro natura), si proclama tradito, e innocente, e nel dir ciò è in buona fede, almeno in parte; giacché, come ogni abile mimo, non ha un carattere ben definito, e s’immagina di essere il personaggio che vuole rappresentare.

(Pagina di diario, pubblicata su Paragone Letteratura, n. 456, n.s., n.7, febbraio 1988, poi in Opere (Meridiani), Milano 1988, vol. I, pp. L-LII; e anche in Alfonso Berardinelli, Autoritratto italiano, Donzelli, 1998, pp. 29-31.)

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martedì, 25 maggio 2010
Due Italie



È il bugiardo più sincero che ci sia, è il primo a credere alle proprie menzogne. È questo che lo rende così pericoloso. Non ha nessun pudore. Berlusconi non delude mai: quando ti aspetti che dica una scempiaggine, la dice. Ha l'allergia alla verità, una voluttuaria e voluttuosa propensione alle menzogne. "Chiagne e fotte", dicono a Napoli dei tipi come lui. E si prepara a farlo per cinque anni.

(25 marzo 2001)


Non è necessario essere socialisti per amare Pertini. Qualunque cosa egli dica o faccia, odora di pulizia, di lealtà e di sincerità.

(da Storia d'Italia, volume l'Italia degli anni di fango)


Indro Montanelli


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martedì, 27 aprile 2010
straordinario Keith


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venerdì, 19 marzo 2010
Essai sur l’art de ramper, à l’usage des Cortisans


L’uomo di corte è senza alcun dubbio il prodotto più curioso che la specie umana possa mostrare. E’ un animale anfibio, in cui tutti i contrasti si trovano comunemente riuniti. Un filosofo danese paragona il cortigiano alla statua composta da materia diverse che Nabucodonosor vide in sogno. “La testa del cortigiano è, dice, di vetro, i capelli sono d’oro, le mani sono di pece resina, il corpo è di gesso, il cuore è metà di ferro e metà di fango, i piedi sono di paglia, ed il suo sangue è un composto di acqua e argento vivo.”
Bisogna riconoscere che un animale così strano è difficile da definire; ben lungi dall’essere conosciuto dagli altri, può appena conoscersi sa sé; tuttavia sembra che, tutto sommato, lo si possa mettere nella classe degli uomini: con questa differenza, però: che gli uomini ordinari hanno un’anima sola, mentre l’uomo di corte pare che ne abbia diverse. In effetti, un cortigiano è ora insolente, ora umile; ora della più sordida avarizia e dell’avidità più insaziabile, ora delal prodigalità più estrema; ora dell’audacia più netta, ora della più vergognosa vigliaccheria; ora dell’arroganza più impertinenza, ora della più studiata cortesia: in una parola, è un Proteo, un Giano, o piuttosto un Dio dell’India, che si rappresenta con sette facce diverse.
Quali che siano, è per questi animali così rari che le nazioni sembrano fatte; la Provvidenza le destina ai loro minimi piaceri; il sovrano stesso non è che il loro uomo d’affari; quando fa il suo dovere, non ha altro impiego che accontentare i loro bisogni e soddisfare le loro fantasia: ben felici di lavorare per questi uomini necessari di cui lo Stato non può fare a meno. Non è che per loro interesse che un monarca deve aumentare le tassem fare la pace o la guerra, immaginare mille invenzioni ingegnose per tormentare e salassare i suoi popoli. In cambio di queste cure i cortigiani riconoscenti pagano il monarca con compiacenze, assiduità, adulazioni, bassezze, e il talento di barattare queste grazie con merci importanti è senza dubbio il più utile alla Corte.
A dire il vero i filosofi, che generalmente sono persone di cattivo umore, considerano il mestiere di cortigiano vile, infame, da impostori. I popoli ingrati non avvertono quanto grandi sono gli obblighi che hanno verso questi grandi generosi che, per tenere il sovrano di buon umore, sono dediti alla noia, si sacrificano ai suoi capricci, immolano continuamente per lui il loro onore, la loro probità, il loro amor proprio, la loro vergogna e i loro rimorsi. Questi imbecilli non avvertono dunque il prezzo di questi sacrifici? Non pensano a quanto costa essere un buon cortigiano? Per quanta forza di spirito si abbia, per quanto corazzata sia la coscienza per l’abitudine di disprezzare la virtù e calestare la probità, gli uomini ordinari provano sempre una pena infinita a soffocare nel loro cuore la voce della razione. Solo il cortigiano giunge a ridurre al silenzio questa voce importuna; solo lui è capace di uno sforzo tanto nobile.
Se esaminiamo le cose da questo punto di vista vediamo che, di tutte le arti, la più difficile è quella di strisciare. Quest’arte sublime è forse la più meravigliosa conquista dello spirito umano. La natura ha messo nel cuore di tutti gli uomini un amor proprio, un orgoglio, una fierezza che sono, di tutte le disposizioni, le più difficili da vincere. L’anima si rivolta contro tutto ciò che cerca di deprimerla, reagisce con vigore tutte le volte che la si ferisce in quel luogo sensibile; e se non si prende di buon’ora l’abitudine di combattere, di comprimere, di schiacciare questa potente energia, diviene impossibile padroneggiarla. A ciò il cortigiano si esercita sin da piccolo, con uno studio senza dubbio più utile di tutti quelli di cui ci vantiamo enfaticamente, e che annuncia in coloro che hanno per tal via acquisito la facoltà di soggiogare la natura una forza di cui pochissimi esseri sono dotati.E’ per questi sforzi eroici, per queste battaglie, per queste vittorie che un abile cortigiano si distingue e perviene ad un livello di insensibilità che tale da procurargli la fiducia, gli onori, quelle grandezze che sono oggetto dell’invidia dei suoi simili e di ammirazione pubblica.
Non si osi esaltare ancora i sacrifici che la religione fa compiere a coloro che vogliono guadagnare il cielo! Che non si parli della forza d’animo die filosofi alteri che prenendono disprezzare tutto ciò che gli uomini stimano! I devoti ed i saggi non hanno potuto vincere l’amor proprio; l’orgoglio sembra molto compatibile con la devozione e la filosofia. Solo al cortigiano è riservato di trionfare su se stesso e di riportare una vittoria completa sui sentimenti del suo cuore. Un perfetto cortigiano è senza alcun dubbio il più sorprendente degli uomini. Non parlate più dell’abnegazione dei devoti per la Divinità: la vera abnegazione è quella di un cortigiano per il suo padrone; vedete come si annienta in sua presenza! Diviene una semplice macchina, o piuttosto non è niente; attende da lui il suo essere; cerca di riconoscere nei suoi tratti quello che deve avere lui stesso; è come cera molle, pronta a ricereve tutte le impressioni che gli si vorrà dare.
Vi sono dei mortali che hanno qualche rigore nello spirito, un difetto di elasticità alla schiena, una mancanza di fressibilità alla nuca. Questa infelice costituzione fisica impedisce loro di perfezionarsi nell’arte di strisciare e li rende incapaci di avanzare a Corte. I serpenti e i rettili arrivano alla cima delle montagne e delle rocce, dove il più cavallo più impetuoso non può inoltrarsi. La corte non è fatta per persone altere, inflessibili, incapaci di prestarsi ai capricci o di cedere alle fantasie, e nemmeno, quando occorre, approvare o favorire i crimini che la grandezza giudica necessaria al benessere dello Stato.
Un buon cortigiano non deve mai avere una opinione sua, ma solo quella del suo signore o del ministro, e la sua sagacia deve sempre fargliela presentire; cosa che suppone un’esperienza consumata ed una conoscenza profonda del cuore umano. Un cortigiano non deve mai avere ragione, non gli è permesso di avere più spirito del suo signore o chi chi gli distribuisce i suoi favori, deve sapere bene che il sovrano e l’uomo in vista non possono mai essere ingannati.
Il cortigiano ben allevato deve avere lo stomaco abbastanza forte per digerire tutti gli affronti che il suo signore vorrà fargli. Deve imparare fin dalla più tenera infanzia a dominare la sua fisionomia, per timore ch’essa tradisca i moti segreti del suo cuore o sveli un dispetto involontario che un’offesa potrebbe farvi nascere. Per vivere alla corte occorre avere un controllo completo sui muscoli del viso, al fine di assistere senza batter ciglio alel cose più disgustosamente sanguinose. Un musone, un uomo che abbia cattivo umore o suscettibilità non vi riuscirebbe.
In effetti, tutti coloro che hanno il potere nelle mani prendono molto male che qualcuno dia segno di avvertire le punzecchiature che hanno la bontà di fare, o che dia mostra di lamentarsene. Davanti al suo signore, il cortigiano deve imitare quel giovane spartano che venne frustato per aver rubato una volpe; benché durante l’operazione l’animale nascosto sotto il mantello gli straziasse il ventre, il dolore non gli fece uscire il minimo grido. Quale arte, quale controllo di sé richiede questa dissimulazione profonda che costituisce la prima caratteristica del vero cortigiano! Bisogna che senza posa sappia blandire i rivali con un’apparenza di amicizia, che mostri un viso aperto, affettuoso, a coloro che più detesta, abbracciare con tenerezza il nemico che vorrebbe soffocare; bisogna infine che le menzogne più impudenti non producano sul suo viso alcuna alterazione.
La grande arte del cortigiano, l’oggetto essenziale del suo studio, è di informarsi sulle passioni ed i vizi del suo signore, per afferrarlo dal lato debole: è assicurato che per questa via otterrà la chiave del suo cuore. ama le donne? Bisogna procurargliene. E’ devoto? Bisogna diventare devoti o ipocriti. E’ ombroso? Gli si offrano sospetti su tutti quelli che lo circondano. E’ pigro? Mai parlargli d’affari. In una parola, bisogna servirlo a modo suo e soprattutto adularlo continuamente. Se è uno sciocco, non si rischia nulla a essere prodighi di adulazioni che è ben lungi dal meritare; ma se per caso ha dello spirito o del buon senso, cosa che raramente è da temere, bisognerà avere qualche riguardo.
Il cortigiano dovrà curare di essere affabile, affettuoso ed educato con tutti quelli chje possono aiutarlo o nuocergli; può essere arrogante solo con quelli di cui non ha bisogno. Deve sapere a memoria il prezzo di tutti quelli che incontra, deve omaggiare profondamente la donna di camera di una dama di rango, conversare familiarmente con il maggiordomo o il valletto di camera del ministro, carezzare il cane del primo commesso. Infine, non gli è consentito di distarsi un solo istante. La vita del cortigiano è uno studio continuo.
Come Arlecchino, un vero cortigiano dev’essere amico di tutto il mondo, ma senza avere la debolezza di legarsi a nessuno. Obbligato a vantarsi dell’amicizia e della sincerità, non deve mai attaccarsi ad altri che all’uomo di potere, e questo attaccamento deve cessare appena il suo potere cessa. E’indispensabile detestare su due piedi chiunque dispiaccia al signore o al favorito influente.
Si giudichi da quanto s’è detto se la vita di un perfetto cortigiano non è un lungo susseguirsi di penose sofferenze. Le nazioni potranno mai pagare troppo un corpo di uomini che a tal punto si consacrano al servizio del principe? Tutti i tesori dei popoli bastano appena a ripagare degli eroi che si sacrificano interamente alla felicità pubblica; non è giusto che degli uomini che si dannano così di buon grado per il vantaggio dei loro concittadini siano almeno ben pagati in questo mondo?
Quale rispetto, quale venerazione dovremo avere per quegli esseri privilegiati che il rango e la nascita rendono naturalmente così fieri, vedendo il sacrificio generoso che fanno della loro fierezza, della loro alterigia, del loro amor proprio! Non possiedono sempre quel sublime abbandono di sé, tanto da adempiere al seguito del principe le stesse funzioni che l’ultimo valletto compie al seguito del suo padrone? Non trovano nulla di vile in tutto ciò che fanno per lui; che dico? si glorificano degli impieghi più vili fatti per la sua sacra persona; ambiscono giorno e notte la buona sorte di essergli utile, lo guardano a vista, si rendono ministri compiacenti dei suoi piaceri, si accollano le loro sciocchezze o si affrettano ad applaudirle; in una parola, un buon cortigiano è talmente assorto nell’idea del suo dovere, che spesso s’inorgoglisce di fare cose cui un onesto lacché non vorrebbe mai prestarsi. Lo spirito del Vangelo è l’umiltà;il Figlio dell’Uomo ci ha detto che chi si esalta verrà umiliato, e il contrario non è meno sicuro. La gente di corte segue il precetto alla lettera. Non siamo sorpresi, dunque, se la Provvidenza li ricompensa a dismisura per la loro docilità e se loro abiezione procura loro gli onori, la ricchezza ed il rispetto delle nazioni ben governate.
barone d’Holbach

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lunedì, 22 febbraio 2010
SpilungRiflette

visione notturnarisposta ad un post di Spilung

Prigionieri della nostra finitezza, dell'equivalersi finale di tutte le esistenze ("in fondo è la stessa cosa ubriacarsi in solitudine o condurre popoli..."); ah! ma è meglio così! -credimi. L'alternativa sarebbe un "senso" datoci dall'esterno, da qualche "Autorità" (Dio, lo Stato, le leggi fisiche...), una volta e per sempre.
Anche una Verità Assoluta è una Tirannide che rende schiavi. Viviamo -dunque- ognuno il "nostro senso", magari con un briciolo di pietas per il nostro vicino...e un po' di humor verso noi stessi (possibilmente) - bye

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mercoledì, 23 dicembre 2009
Facce Arcoriane

di Pino Corrias


Lo spettacolo degli arcoriani di militaresca osservanza che ogni sera faticano in tv è molto più nelle facce che nelle parole: le chiacchiere transitano, ma le facce restano. Quelle memorabili (tipo La Russa, Scajola, Alfano, Carfagna, Capezzone, Belpietro) sono le facce comandate, le facce addestrate a mettersi sull’attenti, a agire in pubblico per il bene privato del Cavaliere padrone dell’aria che respirano. Pronte a scuotersi in un no perpetuo quando dissentono. A vibrare di indignazione. A roteare con gli occhi. A flettere con le mandibole. A accendersi, spegnersi, sfiorire, mai dormire.

C’è la faccia bruegeliana di Alessandro Sallusti, il vice Feltri, che si carica di energia elettrica e manda bagliori di ostilità ai nemici. C’è il pallore di Ghedini che è luce di luna piena e di notti in bianco e di Codici talmente smontati in migliaia di viti e molle e bulloni che poi gli è impossibile rimontarli, poverino, ritrovandosi tutti i triangoli che sono diventati quadrati e viceversa..
C’è la faccia angelicata di Sandro Bondi. Un capolavoro del XIII secolo che trasfigura quando parla dell’amor suo perpetuo. Si illumina. Mentre riverberi d’avvento gli sbiancano le gote, gli occhi si assottigliano a fessure, un dolce sorriso trapela e l’animo gli diventa soffice come pan di spagna imbevuto di riconoscenza. Ma basta un poco di ostilità al suo beneamato drago, quando nell’aria cascano certi sostantivi come mafia, corruzione, processi, a scombussolargliela quella bella faccia levigata, a inasprirgliela come irrorata di limone o aceto.

Poi c’è quella di Bruno Vespa, la faccia/labirinto. Con i suoi solchi che convergono al Centro, si piegano in piccoli sorrisi che poi sgocciolano dietro le braccia conserte e lì spariscono. Andrebbe fatto il plastico di quella faccia con le doppie scale a risalire le guance, gli occhi sul pianerottolo, i fiori appassiti sul davanzale e l’orma del cadavere dell’informazione al centro della scena, tra il naso e l’immaginazione. Cadavere già rimosso, anzi prescritto.

(Da, Voglio scendere)

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mercoledì, 02 dicembre 2009
Il Gran Ballo degli Scienziati


Quando furono diramati gli inviti per il Gran Ballo degli Scienziati,
Pierre e Marie Curie irradiarono entusiamo
Einstein pensò che sarebbe stato relativamente facile perteciparvi
Volta si sentì elettrizzato
Ampere non ne fu messo al corrente
Ohm al principio oppose resistenza
Boyle disse che era troppo sotto pressione
Edison pensò che sarebbe stata una serata luminosa
Stephenson si mise a sbuffare
i fratelli Wright si sentirono volare
Morse decise che avrebbe preso la linea 2 e che sarebbe arrivato alle 8 in punto
Franklin assicurò che sarebbe arrivato in un lampo
Meucci si propose di telefonare per conferma
Von Braun dichiarò che sarebbe arrivato come un missile
Fermi disse che era una notizia atomica
la moglie di Coulomb si sentì subito carica
Hertz ebbe la sensazione di essere sulla cresta dell'onda
Joule dovette rinunciare per problemi di lavoro
Nobel esplose di gioia
Kelvin affermò che era in grado di partecipare
Fourier, invece, aveva già una serie di impegni
Cantor rifiutò, dato che preferiva insiemi più compatti
Abel accettò di buon grado: si trovava bene in quel gruppo
Avogadro, purtroppo, non fu avvisato: nessuno si ricordava il suo numero



Nota Bene:
Ho trovato lo spiritoso catalogo in un anonimo volantino passatomi da un amico/collega, che, a sua volta, lo ha ricevuto da un altro amico/collega...etct... etct...
Chi mai risalirà sino all'arguta testa che se lo inventò?


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