martedì 31 gennaio 2012

muore Splinder e picciokku esporta

Gigi Monello

martedì, 26 ottobre 2010

colpe & colpi

Buone notizie dal mondo della scuola. La ricerca filosofico-alchemica degli studenti milanesi intorno agli elementi del cosmo, procede con profitto. Dopo l’acqua, presa a tema dai quattro impagabili eroi che nel 2004 allagarono il Liceo Parini al nobile scopo di evitare un compito di greco (330.000 euro di danni, scuola chiusa per mesi), adesso è la volta del fuoco. La scena è l’Istituto professionale “Caterina da Siena”, dove un promettente sedicenne, al cambio dell’ora, in attesa del povero disgraziato cui è toccato in sorte di istruirlo, pensa bene di ingannare il tempo dando fuoco ad un pezzo di carta infilato nella serratura della porta dell’aula accanto. Non contento di sé, il Poeta della combustione preleva un estintore, e, non si sa bene se per spegnere le fiamme o variare il gioco (propendo per la seconda), si accinge a spargere schiuma per il mondo, quando, di fronte a sé, trova il disgraziato tenutario della classe vicina: aspro rimprovero dell’adulto; “me ne infischio” e giramento di tacchi; probabile mano sulla spalla dell’adolescente; probabile insistenza per una “spiegazione”. Risultato: estintorata in piena faccia, quattro denti rotti, traumi vari, quindici giorni di cure. In attesa dell’Araldo della terra che scavi una galleria sotto il suo Istituto facendone sprofondare un’ala, e del Profeta dell’aria che riesca a scoperchiare un tetto, è assolutamente imperdibile la dichiarazione surrealista della preside della scuola, “È stata una bravata di un ragazzo che ha problemi di crescita e di esuberanza (…) dobbiamo tutelare chi è in difficoltà. Non abbiamo alcuna intenzione di allontanarlo dalla scuola o di prendere provvedimenti che possano danneggiarlo. Un atteggiamento inutilmente vendicativo non servirebbe a nessuno”. Sorvoliamo sulla parola “esuberanza”, che messa vicino ad una estintorata in piena faccia ha una sua irresistibile comicità; e lasciamo pure cadere la fumosa retorica dell’ “inutile vendetta” (che condurrebbe a sopprimere i tribunali per i minori); chiediamoci, invece, se per caso non sia venuta l’ora di misurare quale enorme danno sociale ha prodotto il finto progressismo di questa scuola dell’ “inclusione a tutti i costi”; che a furia di includere tutti, si è a tal punto degradata da non servire più a nessuno.


                                                                                                                            
Il tubo rotto e le metafisiche



Li ho trovati che stavano riformando. Li lascerò che staranno riformando. Ho passato l’intera vita professionale a leggere di riforme. Lo considero un mondo surreale, a sé stante. Qualcosa come il mondo dei miti, una dimensione rarefatta, dove i grandi apparati delle Riforme vivono di vita propria, come giganteschi animali alieni.
Mentre le vicende storiche delle Riforme si svolgevano in quel SuperMondo, io, nel mondo degli oggetti fisici (lavagne non-scrivibili, gesso sbriciolato, rumori molesti, pareti di cartongesso, circolari insulse, eccitazione da viaggio, visite, conferenze, sportelli e “giornate”), io tentavo di insegnare. Ho fatto un calcolo approssimativo: in 30 anni mi saranno ormai passati davanti qualcosa come 2000 alunni. Mentre io facevo il lavoro sporco, gli “esperti” ristuccavano il mondo. Lo dichiaro apertamente, sentir parlare di riforme mi dà la nausea.

Quando ho iniziato grandinavano sperimentazioni e la parola magica era “Brocca”. Età di sogni e fatiche sprecate. Ricordo colleghi ormai sull’orlo della giubilazione, agitarsi euforici attorno al “progetto giovani” (una delle mode del momento); o svenarsi a difesa di un proprio rigo da inserire nel Pei. Era il tempo in cui iniziava l’effervescenza “da informatica”, cresciuta sino a diventare febbre. A un certo punto sembrò che più computer ci mettevi dentro, più la scuola migliorava. In automatico.
Verso il ’94 la già scassata baracca perse gli esami di riparazione. Era un piccolo, usurato argine, ma ancora reggeva. Venne demolito e sostituito coi “debiti”; con tutto il seguito che ben conosciamo. Poi, con la smania di cancellare Gentile, arrivò Berlinguer. Teorico verboso dell’epocale spostamento: dal docente al discente; dall’aula al territorio; dai programmi alle attività. Non ricordo ebbro diluvio di parole pari a quello. Sino allo sfinimento dovemmo ascoltare il magico risuonare delle formule: scuola-azienda, studente-cliente, preside-manager, offerta, progetti, successo formativo. Il professore non più “davanti, ma accanto allo studente”. Anni di smaniare confuso attorno all’idolo del “nuovopurchessia”.

Ricordo Collegi dei docenti passati ad approvare praticamente tutto; nella selva delle braccia levate-approvanti c’era ogni umano profilo: l’ilare-scettico, il frustrato-invidioso, il furbo obolo-calcolante, il gloria-bramoso, il rassegnato-schifato, il quieto-vivente, il servile-dirigente-prostrato, il pigro-senza-vergogna. Passava di tutto, dalle piante officinali ai laboratori teatrali, dal body building all’ Intervistiamo le nostre nonne, dalla visita al salumificio-modello alla psicologia dinamica alla scientology (rammento un leggendario progetto “Sviluppiamo i talenti”, illustrato con un linguaggio che neppure Ron Hubbard…; e un'altra memorabile perla dal titolo wertmulleriano, il progetto, “Senza carezze non si può camminare a petto in fuori”). C’erano, poi, le invenzioni assolute: ricordo ancora l’ilarità incontenibile di una sera in cui il dirigente ci parlò dei “professori-antenna”, destinati a captare, in esclusiva, non ricordo bene che cosa. Per un attimo vidi la Scuola Radio Elettra di Torino. Un’ orgia demenziale. Me l’hanno fatta odiare la parola “progetto”.

Venne la Moratti, con le sue legioni di esperti e teoreti, e col suo nuovo diluvio di acronimi. Ricordate? Osa, Ofp, Psp, Lep, Ua, Pecup, Larsa. Campano ancora? Vegetano? Sono morti?

Ne sono convinto: esiste una fisica ed una metafisica della scuola. Fisico (molto fisico) è stato quel tubo rotto del bagno accanto alla mia quarta, che per un anno intero ha funestato le mie ore in quell’aula. Vibrava ad ogni scarico, con elaborate modulazioni corrispondenti ai diversi stadi di riempimento della vaschetta. E fisici (molto fisici) sono i colleghi che, puntualmente, a fine quadrimestre (e a fine anno) si portano gli alunni in sala professori o in altri angolini liberi, perché, “oddio! non ho voti!...vogliono rimediare…devo interrogarli…”. E fisiche (molto fisiche) quelle poche disperate ore pomeridiane con le classi d’esame, perché, “il compito di matematica? questi? neppure metà, ne fanno…”. E fisicissime le corse penose e trafelate, a Maggio, per “finire il programma”. Già, i programmi: Loro Altezze Riformanti mi perdonino se dico parolacce. I Programmi: cioè tutte le storie dei migliori uomini che ci hanno preceduto; e che, nella scuola, ancora vivono.

Sublime metafisica, è stato, invece, quel lungo declamare su “tramonto dell'idea di classe”, "fluidificazione dei contenuti", "destrutturazione della didattica disciplinare" (mai sintesi più perfetta del vacuo e dell’ opulento); come metafisicissima resta quella buona ora e mezza passata in Collegio a parlare di quali funzioni-obiettivo introdurre e quali requisiti richiedere ai candidati (lo confesso, mi hanno cambiato la vita, le “funzioni-obiettivo”); e le ricorrenti, micidiali dispute sui “criteri di valutazione”; che – non sia mai! – debbono tendere alla uniformità, “fatta salva l’ autonomia di ogni docente e consiglio di classe”. Come dire, “Colleghi, siamo diversi, e tali resteremo”.

“Dobbiamo stabilire i criteri…”, la risentirò in punto di morte la fatidica frase. Ma sarà troppo tardi.

Mentre io, nel fuoco di un’aula, mi lavoravo i cervelli dei piccoli scimpanzè evoluti, e me la vedevo con i loro potenti spiriti animali; loro, gli “esperti”, si inventavano osa, pecup e larsa. Mentre io mi giocavo l’azzardo di una lezione frontale, loro declamavano ad altezze stratosferiche circa la superiorità delle competenze sulle conoscenze; del saper fare sul sapere. E che arzigogoli dialettici! che dire forbito! che dispute! che sottigliezze, per spiegarci che gli inerti contenuti non bastano; occorre formare “menti critiche”. Un “grazie” di cuore ai nostri Teoreti; senza di loro non ci saremmo mai arrivati.

Mentre io, cercando l’urto di una parola capace di toccare una corda profonda, gli parlavo della singolarità di Auschwitz, loro istituivano Giornate Ufficiali della Memoria e promuovevano il turismo di massa in Polonia; con studenti che passano con auricolari e lettore mp3 sotto il ferreo arco dell’ “Arbeit macht frei”; e mangiano patatine in pieno lager. Non è che, per caso, rileggere Anna Frank o Primo Levi nella solitudine di un pomeriggio a casa, sarebbe assai meglio? Tornare, cioè, a quei privati andirivieni della mente dove soltanto si formano coscienza e intelligenza?

Anche quest’anno ho insegnato. Anche quest’anno, convinto che la scuola sia più un “dentro” che un “fuori”, più un viaggio mentale che tante piccole fughe. Intanto il tubo vibrava. Verso Aprile mi sono sfogato con un giovane bidello; e ho fatto un po’ lo spavaldo, “se mi date una chiave, lo stringo io quel dado…”. Vittorio mi ha smontato, “No, professore, non è solo il tubo che vibra, è l’intera campana…è successo anche a casa mia.” Non distinguevo tubo da campana. Mancava la competenza.


                                                                                    gigi monello

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martedì, 20 luglio 2010
Diventare Dio a sedici anni
 
Diventare Dio a sedici anni
Mauro Pilleri

DIVENTARE DIO
A SEDICI ANNI
una certa gioventù
tra juke box e India
€ 13.00
ISBN 978-88-902371-6-4
pag. 112
Scepsi & Mattana Editorihttp://www.scepsimattanaeditori.com/
L’onda anomala li prese in pieno; non ebbero scampo. Erano figli di famiglie rispettabili della Cagliari anni ’60; a scuola studiavano aoristi e ablativi assoluti; in tv guardavano sceneggiati e tribune politiche; si immaginavano medici, avvocati. Ma nell’aria qualcosa “stonava”: nei juke box di via Dante gracchiava “Satisfaction”. Quel suono sporco, battente, spezzò qualcosa. E quella volta il gioco fallì: la normalità adulta fu “rimandata”. C’era un tono sfrontato in quella chitarra; nuovo, speciale: “gente! raccontatela giusta! siamo chiusi a chiave in un mistero, forse siamo qua solo per provare sensazioni; e quelle che voi ci date non ci piacciono… I can’t get no”. Pistole cariche, gli adolescenti; c’è in loro un pulsare torbido di voglie e ideali, un magma confuso, un eccesso di forze, un’illusione di eternità; può succedere di tutto. Solo dieci anni prima quella carica sarebbe stata gite, stadio, pallone, beffe di strada, amici, bar, ragazze. Per loro fu rock, politica, viaggi, capelli lunghi, contestazione, liberazione femminile, libri, teorie. E hashish, tanto hashish. Una generazione, quattro racconti, una corsa di vent’anni. Da via Dante si finisce in India per poi tornare agli amici di sempre. Erano giovani negli anni sessanta: furono gli ultimi ad illudersi in grande. Cagliari, via Dante, Auro, Gelpo, Giano: un milione di anni fa…


Mauro Pilleri è nato a Cagliari nel 1950. Sua madre insegnava, suo padre amministrava proprietà di famiglia. Finiti gli studi classici, ha vissuto in prima fila gli anni ruggenti della contestazione giovanile a Cagliari e dintorni. Nell’estate del 1974, lasciata l’università, è partito per l’India, dove ha soggiornato qualche mese; cioè meno di quanto avrebbe voluto. È stato sposato sino al 1991 e ha due figli. Impiegato del Ministero della PI, da sempre coltiva la passione per la scrittura. Diventare Dio a sedici anni è la sua opera prima.



Per la foto di copertina si ringrazia Pier Giorgio Santoru

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sabato, 05 giugno 2010
i finti bonari iperattivi


Qualche settimana fa il quotidiano “il Fatto” di Padellaro e Travaglio, ha pubblicato in prima pagina, sotto il plutarchiano titolo “Vite parallele”, un testo di Elsa Morante. Ho poi scoperto che esso circolava da tempo in rete, dove era anche rintracciabile una versione completa della pagina di diario stesa dalla scrittrice il 1° Maggio del 1945. Propongo ai visitatori di leggerlo con la disposizione mentale ad attenuare il valore di alcuni vocaboli (esempio: da“delitto” a “reato”). Mi pare un bel testo, denso, impietoso, profondo; degno di comparire in una antologia intorno al "carattere degli Italiani". Vicino, che so? a Flaiano e Barzini.




Roma 1° maggio 1945

Mussolini e la sua amante Clara Petacci sono stati fucilati insieme, dai partigiani del Nord Italia. Non si hanno sulla loro morte e sulle circostanze antecedenti dei particolari di cui si possa essere sicuri. Così pure non si conoscono con precisione le colpe, violenze e delitti di cui Mussolini può essere ritenuto responsabile diretto o indiretto nell’alta Italia come capo della sua Repubblica di Sociale. Per queste ragioni è difficile dare un giudizio imparziale su quest’ultimo evento con cui la vita del Duce ha fine. Alcuni punti però sono sicuri e cioè: durante la sua carriera, Mussolini si macchiò più volte di delitti che, al cospetto di un popolo onesto e libero, gli avrebbe meritato, se non la morte, la vergogna, la condanna e la privazione di ogni autorità di governo (ma un popolo onesto e libero non avrebbe mai posto al governo un Mussolini). Fra tali delitti ricordiamo, per esempio: la soppressione della libertà, della giustizia e dei diritti costituzionali del popolo (1925), la uccisione di Matteotti (1924), l’aggressione all’Abissinia, riconosciuta dallo stesso Mussolini come consocia alla Società delle Nazioni, società cui l’Italia era legata da patti (1935), la privazione dei diritti civili degli Ebrei, cittadini italiani assolutamente pari a tutti gli altri fino a quel giorno (1938).
Tutti questi delitti di Mussolini furono o tollerati, o addirittura favoriti e applauditi. Ora, un popolo che tollera i delitti del suo capo, si fa complice di questi delitti. Se poi li favorisce e applaude, peggio che complice, si fa mandante di questi delitti. Perché il popolo tollerò favorì e applaudì questi delitti? Una parte per viltà, una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse o per machiavellismo. Vi fu pure una minoranza che si oppose; ma fu così esigua che non mette conto di parlarne. Finché Mussolini era vittorioso in pieno, il popolo guardava i componenti questa minoranza come nemici del popolo e della nazione, o nel miglior dei casi come dei fessi (parola nazionale assai pregiata dagli italiani).
Si rendeva conto la maggioranza del popolo italiano che questi atti erano delitti? Quasi sempre, se ne rese conto, ma il popolo italiano è cosìffatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa scegliere fra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo tornaconto. Mussolini, uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto, era ed è un perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo. Presso un popolo onesto e libero, Mussolini sarebbe stato tutto al più il leader di un partito con un modesto seguito e l’autore non troppo brillante di articoli verbosi sul giornale del suo partito. Sarebbe rimasto un personaggio provinciale, un po’ ridicolo a causa delle sue maniere e atteggiamenti, e offensivo per il buon gusto della gente educata a causa del suo stile enfatico, impudico e goffo. Ma forse, non essendo stupido, in un paese libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura, alla fine. In Italia, fu il Duce.
Perché è difficile trovare un migliore e più completo esempio di Italiano. Debole in fondo, ma ammiratore della forza, e deciso ad apparire forte contro la sua natura. Venale, corruttibile. Adulatore. Cattolico senza credere in Dio. Corruttore. Presuntuoso: Vanitoso. Bonario. Sensualità facile, e regolare. Buon padre di famiglia, ma con amanti. Scettico e sentimentale. Violento a parole, rifugge dalla ferocia e dalla violenza, alla quale preferisce il compromesso, la corruzione e il ricatto. Facile a commuoversi in superficie, ma non in profondità, se fa della beneficenza è per questo motivo, oltre che per vanità e per misurare il proprio potere. Si proclama popolano, per adulare la maggioranza, ma è snob e rispetta il denaro. Disprezza sufficientemente gli uomini, ma la loro ammirazione lo sollecita. Come la cocotte che si vende al vecchio e ne parla male con l’amante più valido, così Mussolini predica contro i borghesi; accarezzando impudicamente le masse. Come la cocotte crede di essere amata dal bel giovane, ma è soltanto sfruttata da lui che la abbandonerà quando non potrà più servirsene, così Mussolini con le masse. Lo abbaglia il prestigio di certe parole: Storia, Chiesa, Famiglia, Popolo, Patria, ecc., ma ignora la sostanza delle cose; pur ignorandole le disprezza o non cura, in fondo, per egoismo e grossolanità. Superficiale. Dà più valore alla mimica dei sentimenti, anche se falsa, che ai sentimenti stessi. Mimo abile, e tale da far effetto su un pubblico volgare. Gli si confà la letteratura amena (tipo ungherese), e la musica patetica (tipo Puccini). Della poesia non gli importa nulla, ma si commuove a quella mediocre (Ada Negri) e bramerebbe forte che un poeta lo adulasse. Al tempo delle aristocrazie sarebbe stato forse un Mecenate, per vanità; ma in tempi di masse, preferisce essere un demagogo. Non capisce nulla di arte, ma, alla guisa di certa gente del popolo, e incolta, ne subisce un poco il mito, e cerca di corrompere gli artisti. Si serve anche di coloro che disprezza. Disprezzando (e talvolta temendo) gli onesti, i sinceri, gli intelligenti poiché costoro non gli servono a nulla, li deride, li mette al bando. Si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, e quando essi lo portano alla rovina o lo tradiscono (com’è nella loro natura), si proclama tradito, e innocente, e nel dir ciò è in buona fede, almeno in parte; giacché, come ogni abile mimo, non ha un carattere ben definito, e s’immagina di essere il personaggio che vuole rappresentare.

(Pagina di diario, pubblicata su Paragone Letteratura, n. 456, n.s., n.7, febbraio 1988, poi in Opere (Meridiani), Milano 1988, vol. I, pp. L-LII; e anche in Alfonso Berardinelli, Autoritratto italiano, Donzelli, 1998, pp. 29-31.)

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martedì, 25 maggio 2010
Due Italie



È il bugiardo più sincero che ci sia, è il primo a credere alle proprie menzogne. È questo che lo rende così pericoloso. Non ha nessun pudore. Berlusconi non delude mai: quando ti aspetti che dica una scempiaggine, la dice. Ha l'allergia alla verità, una voluttuaria e voluttuosa propensione alle menzogne. "Chiagne e fotte", dicono a Napoli dei tipi come lui. E si prepara a farlo per cinque anni.

(25 marzo 2001)


Non è necessario essere socialisti per amare Pertini. Qualunque cosa egli dica o faccia, odora di pulizia, di lealtà e di sincerità.

(da Storia d'Italia, volume l'Italia degli anni di fango)


Indro Montanelli


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martedì, 27 aprile 2010
straordinario Keith


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venerdì, 19 marzo 2010
Essai sur l’art de ramper, à l’usage des Cortisans


L’uomo di corte è senza alcun dubbio il prodotto più curioso che la specie umana possa mostrare. E’ un animale anfibio, in cui tutti i contrasti si trovano comunemente riuniti. Un filosofo danese paragona il cortigiano alla statua composta da materia diverse che Nabucodonosor vide in sogno. “La testa del cortigiano è, dice, di vetro, i capelli sono d’oro, le mani sono di pece resina, il corpo è di gesso, il cuore è metà di ferro e metà di fango, i piedi sono di paglia, ed il suo sangue è un composto di acqua e argento vivo.”
Bisogna riconoscere che un animale così strano è difficile da definire; ben lungi dall’essere conosciuto dagli altri, può appena conoscersi sa sé; tuttavia sembra che, tutto sommato, lo si possa mettere nella classe degli uomini: con questa differenza, però: che gli uomini ordinari hanno un’anima sola, mentre l’uomo di corte pare che ne abbia diverse. In effetti, un cortigiano è ora insolente, ora umile; ora della più sordida avarizia e dell’avidità più insaziabile, ora delal prodigalità più estrema; ora dell’audacia più netta, ora della più vergognosa vigliaccheria; ora dell’arroganza più impertinenza, ora della più studiata cortesia: in una parola, è un Proteo, un Giano, o piuttosto un Dio dell’India, che si rappresenta con sette facce diverse.
Quali che siano, è per questi animali così rari che le nazioni sembrano fatte; la Provvidenza le destina ai loro minimi piaceri; il sovrano stesso non è che il loro uomo d’affari; quando fa il suo dovere, non ha altro impiego che accontentare i loro bisogni e soddisfare le loro fantasia: ben felici di lavorare per questi uomini necessari di cui lo Stato non può fare a meno. Non è che per loro interesse che un monarca deve aumentare le tassem fare la pace o la guerra, immaginare mille invenzioni ingegnose per tormentare e salassare i suoi popoli. In cambio di queste cure i cortigiani riconoscenti pagano il monarca con compiacenze, assiduità, adulazioni, bassezze, e il talento di barattare queste grazie con merci importanti è senza dubbio il più utile alla Corte.
A dire il vero i filosofi, che generalmente sono persone di cattivo umore, considerano il mestiere di cortigiano vile, infame, da impostori. I popoli ingrati non avvertono quanto grandi sono gli obblighi che hanno verso questi grandi generosi che, per tenere il sovrano di buon umore, sono dediti alla noia, si sacrificano ai suoi capricci, immolano continuamente per lui il loro onore, la loro probità, il loro amor proprio, la loro vergogna e i loro rimorsi. Questi imbecilli non avvertono dunque il prezzo di questi sacrifici? Non pensano a quanto costa essere un buon cortigiano? Per quanta forza di spirito si abbia, per quanto corazzata sia la coscienza per l’abitudine di disprezzare la virtù e calestare la probità, gli uomini ordinari provano sempre una pena infinita a soffocare nel loro cuore la voce della razione. Solo il cortigiano giunge a ridurre al silenzio questa voce importuna; solo lui è capace di uno sforzo tanto nobile.
Se esaminiamo le cose da questo punto di vista vediamo che, di tutte le arti, la più difficile è quella di strisciare. Quest’arte sublime è forse la più meravigliosa conquista dello spirito umano. La natura ha messo nel cuore di tutti gli uomini un amor proprio, un orgoglio, una fierezza che sono, di tutte le disposizioni, le più difficili da vincere. L’anima si rivolta contro tutto ciò che cerca di deprimerla, reagisce con vigore tutte le volte che la si ferisce in quel luogo sensibile; e se non si prende di buon’ora l’abitudine di combattere, di comprimere, di schiacciare questa potente energia, diviene impossibile padroneggiarla. A ciò il cortigiano si esercita sin da piccolo, con uno studio senza dubbio più utile di tutti quelli di cui ci vantiamo enfaticamente, e che annuncia in coloro che hanno per tal via acquisito la facoltà di soggiogare la natura una forza di cui pochissimi esseri sono dotati.E’ per questi sforzi eroici, per queste battaglie, per queste vittorie che un abile cortigiano si distingue e perviene ad un livello di insensibilità che tale da procurargli la fiducia, gli onori, quelle grandezze che sono oggetto dell’invidia dei suoi simili e di ammirazione pubblica.
Non si osi esaltare ancora i sacrifici che la religione fa compiere a coloro che vogliono guadagnare il cielo! Che non si parli della forza d’animo die filosofi alteri che prenendono disprezzare tutto ciò che gli uomini stimano! I devoti ed i saggi non hanno potuto vincere l’amor proprio; l’orgoglio sembra molto compatibile con la devozione e la filosofia. Solo al cortigiano è riservato di trionfare su se stesso e di riportare una vittoria completa sui sentimenti del suo cuore. Un perfetto cortigiano è senza alcun dubbio il più sorprendente degli uomini. Non parlate più dell’abnegazione dei devoti per la Divinità: la vera abnegazione è quella di un cortigiano per il suo padrone; vedete come si annienta in sua presenza! Diviene una semplice macchina, o piuttosto non è niente; attende da lui il suo essere; cerca di riconoscere nei suoi tratti quello che deve avere lui stesso; è come cera molle, pronta a ricereve tutte le impressioni che gli si vorrà dare.
Vi sono dei mortali che hanno qualche rigore nello spirito, un difetto di elasticità alla schiena, una mancanza di fressibilità alla nuca. Questa infelice costituzione fisica impedisce loro di perfezionarsi nell’arte di strisciare e li rende incapaci di avanzare a Corte. I serpenti e i rettili arrivano alla cima delle montagne e delle rocce, dove il più cavallo più impetuoso non può inoltrarsi. La corte non è fatta per persone altere, inflessibili, incapaci di prestarsi ai capricci o di cedere alle fantasie, e nemmeno, quando occorre, approvare o favorire i crimini che la grandezza giudica necessaria al benessere dello Stato.
Un buon cortigiano non deve mai avere una opinione sua, ma solo quella del suo signore o del ministro, e la sua sagacia deve sempre fargliela presentire; cosa che suppone un’esperienza consumata ed una conoscenza profonda del cuore umano. Un cortigiano non deve mai avere ragione, non gli è permesso di avere più spirito del suo signore o chi chi gli distribuisce i suoi favori, deve sapere bene che il sovrano e l’uomo in vista non possono mai essere ingannati.
Il cortigiano ben allevato deve avere lo stomaco abbastanza forte per digerire tutti gli affronti che il suo signore vorrà fargli. Deve imparare fin dalla più tenera infanzia a dominare la sua fisionomia, per timore ch’essa tradisca i moti segreti del suo cuore o sveli un dispetto involontario che un’offesa potrebbe farvi nascere. Per vivere alla corte occorre avere un controllo completo sui muscoli del viso, al fine di assistere senza batter ciglio alel cose più disgustosamente sanguinose. Un musone, un uomo che abbia cattivo umore o suscettibilità non vi riuscirebbe.
In effetti, tutti coloro che hanno il potere nelle mani prendono molto male che qualcuno dia segno di avvertire le punzecchiature che hanno la bontà di fare, o che dia mostra di lamentarsene. Davanti al suo signore, il cortigiano deve imitare quel giovane spartano che venne frustato per aver rubato una volpe; benché durante l’operazione l’animale nascosto sotto il mantello gli straziasse il ventre, il dolore non gli fece uscire il minimo grido. Quale arte, quale controllo di sé richiede questa dissimulazione profonda che costituisce la prima caratteristica del vero cortigiano! Bisogna che senza posa sappia blandire i rivali con un’apparenza di amicizia, che mostri un viso aperto, affettuoso, a coloro che più detesta, abbracciare con tenerezza il nemico che vorrebbe soffocare; bisogna infine che le menzogne più impudenti non producano sul suo viso alcuna alterazione.
La grande arte del cortigiano, l’oggetto essenziale del suo studio, è di informarsi sulle passioni ed i vizi del suo signore, per afferrarlo dal lato debole: è assicurato che per questa via otterrà la chiave del suo cuore. ama le donne? Bisogna procurargliene. E’ devoto? Bisogna diventare devoti o ipocriti. E’ ombroso? Gli si offrano sospetti su tutti quelli che lo circondano. E’ pigro? Mai parlargli d’affari. In una parola, bisogna servirlo a modo suo e soprattutto adularlo continuamente. Se è uno sciocco, non si rischia nulla a essere prodighi di adulazioni che è ben lungi dal meritare; ma se per caso ha dello spirito o del buon senso, cosa che raramente è da temere, bisognerà avere qualche riguardo.
Il cortigiano dovrà curare di essere affabile, affettuoso ed educato con tutti quelli chje possono aiutarlo o nuocergli; può essere arrogante solo con quelli di cui non ha bisogno. Deve sapere a memoria il prezzo di tutti quelli che incontra, deve omaggiare profondamente la donna di camera di una dama di rango, conversare familiarmente con il maggiordomo o il valletto di camera del ministro, carezzare il cane del primo commesso. Infine, non gli è consentito di distarsi un solo istante. La vita del cortigiano è uno studio continuo.
Come Arlecchino, un vero cortigiano dev’essere amico di tutto il mondo, ma senza avere la debolezza di legarsi a nessuno. Obbligato a vantarsi dell’amicizia e della sincerità, non deve mai attaccarsi ad altri che all’uomo di potere, e questo attaccamento deve cessare appena il suo potere cessa. E’indispensabile detestare su due piedi chiunque dispiaccia al signore o al favorito influente.
Si giudichi da quanto s’è detto se la vita di un perfetto cortigiano non è un lungo susseguirsi di penose sofferenze. Le nazioni potranno mai pagare troppo un corpo di uomini che a tal punto si consacrano al servizio del principe? Tutti i tesori dei popoli bastano appena a ripagare degli eroi che si sacrificano interamente alla felicità pubblica; non è giusto che degli uomini che si dannano così di buon grado per il vantaggio dei loro concittadini siano almeno ben pagati in questo mondo?
Quale rispetto, quale venerazione dovremo avere per quegli esseri privilegiati che il rango e la nascita rendono naturalmente così fieri, vedendo il sacrificio generoso che fanno della loro fierezza, della loro alterigia, del loro amor proprio! Non possiedono sempre quel sublime abbandono di sé, tanto da adempiere al seguito del principe le stesse funzioni che l’ultimo valletto compie al seguito del suo padrone? Non trovano nulla di vile in tutto ciò che fanno per lui; che dico? si glorificano degli impieghi più vili fatti per la sua sacra persona; ambiscono giorno e notte la buona sorte di essergli utile, lo guardano a vista, si rendono ministri compiacenti dei suoi piaceri, si accollano le loro sciocchezze o si affrettano ad applaudirle; in una parola, un buon cortigiano è talmente assorto nell’idea del suo dovere, che spesso s’inorgoglisce di fare cose cui un onesto lacché non vorrebbe mai prestarsi. Lo spirito del Vangelo è l’umiltà;il Figlio dell’Uomo ci ha detto che chi si esalta verrà umiliato, e il contrario non è meno sicuro. La gente di corte segue il precetto alla lettera. Non siamo sorpresi, dunque, se la Provvidenza li ricompensa a dismisura per la loro docilità e se loro abiezione procura loro gli onori, la ricchezza ed il rispetto delle nazioni ben governate.
barone d’Holbach

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lunedì, 22 febbraio 2010
SpilungRiflette

visione notturnarisposta ad un post di Spilung

Prigionieri della nostra finitezza, dell'equivalersi finale di tutte le esistenze ("in fondo è la stessa cosa ubriacarsi in solitudine o condurre popoli..."); ah! ma è meglio così! -credimi. L'alternativa sarebbe un "senso" datoci dall'esterno, da qualche "Autorità" (Dio, lo Stato, le leggi fisiche...), una volta e per sempre.
Anche una Verità Assoluta è una Tirannide che rende schiavi. Viviamo -dunque- ognuno il "nostro senso", magari con un briciolo di pietas per il nostro vicino...e un po' di humor verso noi stessi (possibilmente) - bye

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mercoledì, 23 dicembre 2009
Facce Arcoriane

di Pino Corrias


Lo spettacolo degli arcoriani di militaresca osservanza che ogni sera faticano in tv è molto più nelle facce che nelle parole: le chiacchiere transitano, ma le facce restano. Quelle memorabili (tipo La Russa, Scajola, Alfano, Carfagna, Capezzone, Belpietro) sono le facce comandate, le facce addestrate a mettersi sull’attenti, a agire in pubblico per il bene privato del Cavaliere padrone dell’aria che respirano. Pronte a scuotersi in un no perpetuo quando dissentono. A vibrare di indignazione. A roteare con gli occhi. A flettere con le mandibole. A accendersi, spegnersi, sfiorire, mai dormire.

C’è la faccia bruegeliana di Alessandro Sallusti, il vice Feltri, che si carica di energia elettrica e manda bagliori di ostilità ai nemici. C’è il pallore di Ghedini che è luce di luna piena e di notti in bianco e di Codici talmente smontati in migliaia di viti e molle e bulloni che poi gli è impossibile rimontarli, poverino, ritrovandosi tutti i triangoli che sono diventati quadrati e viceversa..
C’è la faccia angelicata di Sandro Bondi. Un capolavoro del XIII secolo che trasfigura quando parla dell’amor suo perpetuo. Si illumina. Mentre riverberi d’avvento gli sbiancano le gote, gli occhi si assottigliano a fessure, un dolce sorriso trapela e l’animo gli diventa soffice come pan di spagna imbevuto di riconoscenza. Ma basta un poco di ostilità al suo beneamato drago, quando nell’aria cascano certi sostantivi come mafia, corruzione, processi, a scombussolargliela quella bella faccia levigata, a inasprirgliela come irrorata di limone o aceto.

Poi c’è quella di Bruno Vespa, la faccia/labirinto. Con i suoi solchi che convergono al Centro, si piegano in piccoli sorrisi che poi sgocciolano dietro le braccia conserte e lì spariscono. Andrebbe fatto il plastico di quella faccia con le doppie scale a risalire le guance, gli occhi sul pianerottolo, i fiori appassiti sul davanzale e l’orma del cadavere dell’informazione al centro della scena, tra il naso e l’immaginazione. Cadavere già rimosso, anzi prescritto.

(Da, Voglio scendere)

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mercoledì, 02 dicembre 2009
Il Gran Ballo degli Scienziati


Quando furono diramati gli inviti per il Gran Ballo degli Scienziati,
Pierre e Marie Curie irradiarono entusiamo
Einstein pensò che sarebbe stato relativamente facile perteciparvi
Volta si sentì elettrizzato
Ampere non ne fu messo al corrente
Ohm al principio oppose resistenza
Boyle disse che era troppo sotto pressione
Edison pensò che sarebbe stata una serata luminosa
Stephenson si mise a sbuffare
i fratelli Wright si sentirono volare
Morse decise che avrebbe preso la linea 2 e che sarebbe arrivato alle 8 in punto
Franklin assicurò che sarebbe arrivato in un lampo
Meucci si propose di telefonare per conferma
Von Braun dichiarò che sarebbe arrivato come un missile
Fermi disse che era una notizia atomica
la moglie di Coulomb si sentì subito carica
Hertz ebbe la sensazione di essere sulla cresta dell'onda
Joule dovette rinunciare per problemi di lavoro
Nobel esplose di gioia
Kelvin affermò che era in grado di partecipare
Fourier, invece, aveva già una serie di impegni
Cantor rifiutò, dato che preferiva insiemi più compatti
Abel accettò di buon grado: si trovava bene in quel gruppo
Avogadro, purtroppo, non fu avvisato: nessuno si ricordava il suo numero



Nota Bene:
Ho trovato lo spiritoso catalogo in un anonimo volantino passatomi da un amico/collega, che, a sua volta, lo ha ricevuto da un altro amico/collega...etct... etct...
Chi mai risalirà sino all'arguta testa che se lo inventò?


Postato da: pirosklazomane a 21:05 | link | commenti

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