A dispetto della “discontinuità” dichiarata dal nuovo esecutivo, sulla scuola sembra si voglia procedere col pilota automatico, portando a compimento un disegno di riforma di lunga incubazione, che il governo Renzi ha avuto il merito di rendere complessivamente riconoscibile nella sua coerenza. La pubblicistica recente in tema di istruzione riporta all’attualità temi e contenuti tipici della”cultura della Buona Scuola”, vagamente riverniciati, con l’intento sottile (almeno per chi non lo sappia intendere) di convincere in merito al carattere progressista delle spinte riformatrici, contraddicendo i più elementari principi di realtà. Leggiamo dunque della necessità di attuare nuove “metodologie didattiche delle non cognitive skills“, di superare “una visione solo cognitiva dell’apprendimento“, dell’esigenza di una “didattica innovativa” che “contrasti la disaffezione nei confronti della scuola” e combatta la “povertà educativa“. Si tratta di strategie retoriche, persuasive e comunicative ampiamente riconoscibili, usuali da parte di una certa sinistra “neoliberista”, decisa a mostrare come interventi regressivi, per esempio il Jobs Act, siano di effettivamente di sinistra. Ma per scardinare definitivamente ciò che resta della scuola democratica, della sua organizzazione, delle sue finalità formative e delle sue fondamenta politico-civili, ecco che è necessario superare definitivamente la resistenza degli insegnanti: quanto meno di quelli che il Miur definiva in un rapporto del 2017 “professionisti di vecchia data ancora convinti che il titolo di studio non solo serva, ma sia un valore”.
Nuovo esecutivo, nuova politica: nel segno della discontinuità. Questo lo slogan con cui, dall’inizio della crisi estiva ad oggi, il nuovo governo chiede legittimazione di fronte all’opinione pubblica.
Le intenzioni in tema di politica scolastica non hanno tardato ad arrivare: è parso quanto mai singolare ascoltare, tra i punti toccati nelle dichiarazioni del presidente del Consiglio Conte, insieme agli ormai consueti temi della carenza di finanziamenti, riorganizzazione del reclutamento e superamento del precariato, anche la necessità di intervenire sulla didattica degli insegnanti.
“Le nostre scuole devono diventare dei luoghi di apprendimento dove il come imparare è più importante del cosa imparare [..]”, ha affermato il presidente del Consiglio uscente Conte al Senato il 20 agosto.
“Per la scuola occorre migliorare la didattica [..]” ha ribadito il presidente del Consiglio ri-entrante Conte, il 9 settembre.
Lo stesso neoministro Fioramonti, nel suo primo incontro con i Sindacati, il 17 Settembre, ha ripreso l’argomento: “per innovare e per fare una didattica innovativa, oggi la Scuola non ha a disposizione risorse sufficienti”.
Che il concetto di “discontinuità” lo si valuti rispetto al ministero Giannini-Fedeli o rispetto a quello Bussetti, poco cambia: sulla scuola sembra si voglia procedere col pilota automatico, portando a compimento un disegno di riforma di lunga incubazione, che la Buona Scuola ha avuto il merito di rendere complessivamente riconoscibile nella sua coerenza. In sintesi: scardinare definitivamente ciò che resta della scuola democratica, della sua organizzazione, delle sue finalità formative e delle sue fondamenta politico-civili, per dare ancora più spazio ad un’idea di scuola al servizio della riproduzione sociale e culturale. Ecco che per far questo è necessario superare definitivamente la resistenza degli insegnanti: quanto meno di quelli che il Miur definiva in un rapporto del 2017 “professionisti di vecchia data ancora convinti che il titolo di studio non solo serva, ma sia un valore”.
Che gli esecutivi Conte – sia il primo, che il secondo – si accingessero a segnare un’inversione di tendenza è parso immediatamente poco credibile; a ben vedere la volontà politica è sembrata (e sembra ancora) essere quella di attuare interventi di piccola bottega, “pacchetti di Buona Scuola” disorganici e solo all’apparenza difformi dall’impianto originario, camuffati ma non meno regressivi. Si pensi alla riforma dell’Esame di Stato o alla legge sull’Educazione Civica che ha ricevuto parere negativo dal Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. Entrambi i provvedimenti, dal punto di vista delle finalità culturali e formative, sono perfettamente coerenti con l’impianto della riforma Renzi: l’interdisciplinarietà coatta del colloquio del nuovo esame e l’estromissione della storia, le certificazioni di competenze degli studenti a firma INVALSI – con il progressivo smantellamento del valore delle credenziali educative pubbliche – il guazzabuglio dell’educazione civica-digitale-ambientale-alla legalità-alla sicurezza, rigorosamente senza oneri per lo Stato; ancora: l’enfasi sul raccordo scuola e territorio, il perenne richiamo ad un’impostazione didattica fondata sul dominio delle competenze, punto centrale di un’idea di scuola che vede entusiasticamente concordi Fondazione Agnelli, INVALSI, Associazione Nazionale Presidi.
Che sia in atto un tentativo decisivo di imporre in via definitiva la “cultura della Buona Scuola” traspare da tutta una pubblicistica recente, che ne riporta all’attualità temi e contenuti tra i più retrivi, con l’intento sottile (almeno per chi non lo sappia intendere) di convincere in merito al carattere progressista delle spinte riformatrici, contraddicendo i più elementari principi di realtà. Una strategia usuale da parte di una certa sinistra “neoliberista”, decisa a mostrare come interventi regressivi, p.es. il Jobs Act, siano di effettivamente di sinistra. Vediamo alcuni dei documenti a cui facciamo riferimento.
L’idea di Scuola che mette d’accordo
tutti: l’Intergruppo della sussidiarietà
Il più significativo –in particolare per l’autorevolezza e la
risonanza del luogo di pubblicazione- è un appello apparso sul
“Corriere
della Sera” il 14 agosto 2019. In realtà si tratta di un
documento che si concepisce in perfetta continuità con un altro
scritto, pubblicato
un anno prima, dal titolo “Un nuovo patto (senza muri) sul
bene comune”.Come spesso accade, anche quando si è in presenza di contenuti argomentativi di debole spessore intellettuale, un’analisi del testo risulta in grado di smontarne l’artificiosità teorica e la prosa astrusa e fumosa, smascherandone l’intenzione ideologica. L’appello dell’agosto scorso ha la finalità dichiarata di stravolgere l’organizzazione scolastica, incentrando il lavoro didattico non più sui contenuti di cultura rappresentati dai diversi saperi disciplinari, bensì sull’«introduzione della metodologia didattica delle non cognitive skills (amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale)» e sul «superamento di una visione solo cognitiva dell’apprendimento e facendo leva sull’educazione della personalità e della consapevolezza dei ragazzi» per «contrastare la loro disaffezione verso la scuola e migliorare la qualità del sistema scolastico».
A ben vedere, l’argomento è sovrapponibile perfettamente alla sintesi fatta in Senato dal Presidente Conte: le nostre scuole devono diventare dei luoghi di apprendimento dove il come imparare è più importante del cosa imparare.
E’ interessante notare come questi temi, che riprendono rozze argomentazioni ritrovate nei diversi documenti ministeriali pubblicati a partire dall’approvazione della Legge 107, siano nel caso in questione incorniciate da un cenno introduttivo e da una conclusione che nulla c’entrano con la scuola, ma che hanno lo scopo di far apparire in un’aura falsamente progressista la reale proposta che ne è il fondamento: quella di smantellare l’autonomia della cultura e subordinarla alla logica e alla cultura d’impresa.
La parte iniziale accenna alla necessità di un cambiamento dovuto al nuovo scenario internazionale, che obbliga il Paese a modificazioni profonde, quasi sempre coincidenti con le decisioni riformatrici in tema di organizzazione del lavoro, in linea con la svolta economica neo liberista. In chiusura, invece, viene esaltata la dimensione comunitaria della personalità e della cittadinanza, di contro a una diffusione sempre più massiccia dell’individualismo, come se questo non fosse il frutto proprio delle recenti scelte politico-economiche. Scelte ben concretizzate, nel caso della scuola, negli imperativi «crescere, competere, correre», alla base di tutto l’impianto culturale della Buona Scuola[1].
Non mancano poi i riferimenti al Sud, alla sussidiarietà, il riferimento ai giovani, alla dispersione scolastica e alla «povertà educativa» cui sarebbero soggetti. L’intenzione è chiara: addossare (in modo insensato) sulla scuola la responsabilità dell’intera crisi economica ed occupazionale, oramai strutturale, oltre che frutto di precise scelte di politica economica, che in questi anni hanno coinvolto l’intera Unione Europea. Nella parte conclusiva dell’appello, con un salto logico rispetto a quanto appena esposto, si fa riferimento alla sostenibilità, alla sfida ambientale, citando persino papa Francesco, senza che ci sia alcuna relazione coerente con quanto scritto sopra; nel perfetto stile retorico riformista che oggi va per la maggiore, pur totalmente decontestualizzato.
Tuttavia, oltre i contenuti, ciò che più inquieta sono i nomi dei firmatari. Non tanto quelli di Maurizio Lupi, Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini, fino a Graziano Delrio, Luigi Marattin e Simona Malpezzi; quanto quelli di Roberto Speranza di Liberi e Uguali, di Gabriele Toccafondi del gruppo misto e di Paolo Lattanzio del Movimento 5 Stelle.
Si sigla, di fatto, un’alleanza contro la scuola democratica e gli insegnanti che non lascia intravedere possibili alternative di rappresentanza politica, se gli stessi docenti non riusciranno a mobilitarsi, rifiutando quella che si configurerebbe come una definitiva espropriazione di fatto delle loro prerogative professionali; per di più da parte di esponenti che, nella quasi totalità, non sarebbero in grado di affrontare alcun dibattito serio sulla scuola.
I 10 falsi luoghi comuni della scuola dell’Intergruppo
Richiamando quell’appello il documento sul bene comune di più ampio respiro apparso nel 2018, presentato come manifesto dell’innovazione, e ora addirittura testimonianza della discontinuità, vorremmo elencare brevemente 10 falsi luoghi comuni in esso presenti, spacciati per evidenze scientifiche, per ciascuno dei quali sono state da noi ampiamente espresse diverse argomentazioni in merito:-
la falsa
contrapposizione tra una concezione
della didattica specialistica e settaria
(quella della discipline) cui si contrapporrebbe l’approccio
«olistico» dei riformatori. Il documento inizia
significativamente con la frase “nessun uomo (e nessun Paese) è
un’isola”, proponendo una comparazione tra due dimensioni
incommensurabili, ovvero le dinamiche psico-cognitive e le relazioni
internazionali tra Stati;
-
la priorità data in tema di istruzione alle
problematiche economiche, facendo della scuola la
principale responsabile
della crisi della stessa economia, ribaltando evidentemente una
relazione di causa e di effetto;
-
l’idea che la crisi economica sia dovuta non a fattori
strutturali, a scelte politiche dovute ai governi o alle istituzioni
sovranazionali, bensì alla mancanza del nostro paese di “capacità
imprenditoriale”. Se ne deduce che l’imprenditorialità diventa
essa stessa un carattere antropologico che va
adeguatamente formato in ciascuno attraverso il processo educativo,
da configurare come costruzione di una soggettività ideologicamente
orientata, unica responsabile dei propri successi o fallimenti.
-
un poco credibile e contraddittorio riferimento all’ “io
iper-individualista” che si vorrebbe combattere, laddove invece è
proprio la dimensione dell’imprenditorialità a configurarsi come
concorrenza di tutti contro tutti. L’appello alle
appartenenze comunitarie non fa affatto riferimento a quelle
solidaristiche previste dalla Costituzione, ma alla logica di gruppo
e della lobby tipiche dell’impresa, dove la direzione del lavoro è
etero-diretta. La contraddizione sta poi nel fatto che lo stesso
“io” viene definito, in una concezione palesemente
volontaristica, come soggetto protagonista che ha “voglia di
combattere” e che in questo modo “ricostruisce i corpi
intermedi”, con ciò forse auspicando il superamento di quell’
impostazione corporativa (in realtà per noi solidaristica) che li
avrebbe caratterizzati storicamente, per imporre la prevalenza delle
specifiche individualità. Ovviamente, per raggiungere questo
traguardo, “serve un altro io, diverso da quello contemporaneo”:
c’è qui una volontà di riconfigurazione
antropologica che, a nostro parere, si manifesta come
intrinsecamente totalitaria, in quanto al di là di ogni
finalità del processo di istruzione in una società democratica;
una volontà che intende totalmente conformare l’individuo
all’ordine socio-economico vigente, senza che abbia gli strumenti
per metterlo in discussione.
-
l’affermazione di voler adottare un metodo della
collaborazione e della condivisione per quanto riguarda le
decisioni, mentre invece la riforma scolastica è
avvenuta esautorando
proprio gli insegnanti da ogni processo decisionale, in
nome di una retorica pseudo-scientista che, a partire da presunte
assunzioni di ordine psico-cognitivo, pretende che i docenti
“destrutturino
le proprie sinapsi”, diventando operatori docili di istruzioni
decise da altri. Mai come in questi anni i fautori delle riforme
hanno agito nella assoluta indifferenza di qualsiasi tesi contraria;
-
la centralità
delle imprese nella società contemporanea e
quindi il loro diritto a condizionare in modo decisivo il processo
didattico-formativo, in tutti gli ambiti in cui questo si svolge (di
programmazione, di decisione di metodi e contenuti e di
valutazione);
-
l’uso retorico, come elemento oggettivo
probante, dei risultati delle prove INVALSI, le cui
criticità sono state più volte oggetto di analisi di questo blog;
-
l’affermazione, priva di ogni inferenza ragionevole a
supporto, che l’interazione educativa obblighi a considerare
sullo stesso piano istituti pubblici e privati;
-
demagogico risulta anche l’accenno
a una condizione giovanile di alienazione (ludopatie,
ecc.). Non ci si interroga da quando, infatti, tale fenomeno ha
iniziato a manifestare un’ampiezza così preoccupante; né sulla
sua relazione con una mentalità orientata al consumo la cui
ideologia di fondo è proprio quella sposata dal documento; né
sulla relazione con un’iper inflazione, di tendenza anche questa
per lo più consumistica, delle nuove tecnologie. In particolare gli
smartphone il cui uso si vorrebbe invasivo persino a scuola;
-
in ultimo, l’accenno al “regionalismo
differenziato”, come indispensabile per “superare
il fallimentare centralismo” e finalmente innovare. Viste le
dinamiche che hanno portato alla formazione del nuovo esecutivo, non
è un caso che questo accenno sia sparito dall’appello pubblicato
sul Corriere della Sera. Non per questo si tratta di uno scampato
pericolo; nell’ambito dell’istruzione, la
regionalizzazione avrebbe
permesso infatti di creare le modalità organizzative più
adatte per imporre la logica e la didattica autoritarie previste
dalla Buona Scuola.
Fuoco amico?
Si potrebbe probabilmente non esagerare l’importanza di tale gruppo per la sussidiarietà, anche se la convergenza politica risulta inquietante: quasi una sorta di patto, di modo che nessuno possa poi pensare di attrarre il bacino elettorale rappresentato dagli insegnanti.Ma insieme al documento dell’Intergruppo sono apparsi altri interventi sulla scuola, particolarmente significativi nell’attuale fase politica. Si tratta di documenti volti a convincere un’opinione pubblica di sinistra del carattere progressista di azioni riformatrici le cui fondamenta ideologiche, di stampo neoliberista, riteniamo appaiano invece evidenti. Se in fondo risulta di poco spessore l’intervento sul portale di Micromega di Mila Spicola – storica esponente del PD impegnata con l’allora sottosegretario all’istruzione Davide Faraone a imporre il progetto della Buona Scuola-, poiché la pretesa di far coincidere la scuola delle competenze e dell’alternanza scuola lavoro con lo spirito del pensiero gramsciano non ha fondamento teorico, testuale e intellettuale, più preoccupanti risultano invece le posizioni espresse dagli esponenti sindacali Andrea Ranieri e Francesco Sinopoli, FLC-CGIL, pubblicate su Il Manifesto del 4 settembre scorso.
Nel titolo si parla incredibilmente di «discontinuità» nella politica scolastica, facendola però coincidere con il modello di scuola da anni difeso, sostenuto, e parzialmente realizzato, proprio dalla Fondazione Agnelli o dall’Associazione Nazionale Presidi. L’abbandono di una scuola orientata alla valorizzazione umanistica della cultura, la didattica innovativa vengono presentate come azioni di sinistra e di contrasto alle disuguaglianze: «E’ giunta l’ora di dirsi con chiarezza che un’istruzione che fa della frammentazione disciplinare la ragione fondamentale della trasmissione del sapere e della sua stessa organizzazione interna amplifica le disuguaglianze fra chi a casa ha qualcuno in grado di aiutare i ragazzi a comporre un sapere frammentario e chi la frammentazione la subisce»; ancora: la necessità di «una didattica nuova, che rompa a tutti i livelli con l’individualismo docente”. Queste affermazioni non possiedono alcuna logica o fondamento scientifico, ma appaiono finalizzate a orientare l’azione del governo, quasi a fornire in anticipo uno “scudo ideologico” rispetto a qualsiasi opposizione. Non un cenno alla deriva misuratoria e valutativa che ha investito la scuola in questi ultimi anni, alla gerarchizzazione interna e allo svuotamento di senso degli organi collegiali – che hanno annientato proprio quella cooperazione tanto declamata; non una parola sulla pervasività omologante dei dispositivi di certificazione/ valutazione INVALSI, che addirittura si pretenderebbe di arricchire con incredibili misurazioni di soft skills. Un primo, vero segnale di discontinuità, a nostro parere, avrebbe potuto essere rappresentato proprio da una sterzata sul tema della valutazione (e certificazione) degli apprendimenti, tramite una messa in discussione di tutta l’impalcatura del Sistema Nazionale di Valutazione (vedi ricorso contro DPR 80/2013 portato avanti proprio dalla FLC in passato), in cui ruolo dominante è svolto dall’istituto INVALSI.
Senza alcuna problematizzazione della complessità dell’attuale situazione della nostra scuola – un’istituzione in perenne stato di ristrutturazione e di riforma – senza alcun bilancio o valutazione seri, onesti e rigorosi degli interventi frammentati e velleitariamente previsti a costo zero da oltre 20 anni, si punta unanimemente il dito contro gli insegnanti. Sono loro, le loro lezioni, i loro giudizi soggettivi e la loro formazione vetusta, la causa di disuguaglianze, abbandoni, dispersione e povertà educativa. Eppure, appare ormai lampante quanto le spinte riformatrici siano perfettamente in linea con le richieste del nuovo professionismo e della cultura d’impresa di oggi.
“Il capitale umano 4.0”, come lo definiscono gli estensori del manifesto della sussidiarietà, non ama profili solidamente definiti culturalmente; al contrario, soggettività improntate alla massima disponibilità a farsi integrare nell’organizzazione lavorativa. Largo alla scuola delle soft skills.
- DA ROARS, 1 Ottobre 2019
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